Ci eravamo armati fino ai denti, per quel che valeva. Eravamo perfettamente consapevoli che tutte le nostre munizioni non erano nulla in confronto a quello che ci attendeva con quelle persone, ma avevamo deciso di giocare d'astuzia e se ci fossimo riuscisti avremmo dovuto ringraziare quel famoso Dio in cui tanto credeva Ryan. Io invece, avrei ringraziato i miei attributi.
Indossavo di nuovo i miei jeans grigi e la t-shirt bianca, e i miei adorati anfibi che nascondevano alla perfezione i miei coltelli.
Mi allacciai la cintura, dove erano agganciate le granate, quasi sotto il seno. Poi afferrai il giubbotto in pelle nera e lo indossai chiudendo la zip fin sotto il mento.
«Sei sicura con tutto quell'esplosivo addosso?» Ryan come al solito non faceva altro che minimizzare la situazione scherzandoci su.
Io lo guardai, alzando un sopracciglio. «Nel migliore dei casi una di queste si apre e saltiamo tutti in aria.»
«E nel peggiore?» chiese lui mentre si allacciava le scarpe.
«Loro fanno saltare noi in aria», tirai su le maniche lunghe del giubbino per avere più mobilità nelle braccia.
Poi vidi Ryan baciare la collana con la grossa croce che portava costantemente al collo e mi venne da ridere. «Lo sai che quella non ti aiuterà dove stiamo andando noi, vero?»
«Sperare non costa mica», fece spallucce e se la nascose all'interno della maglia.
Eravamo pronti. Non ero nervosa, o meglio non troppo: sapevo a quale destino stavo andando incontro ma l'unica cosa che riuscivo a pensare era alla speranza di trovare mio fratello sano e salvo, di portarlo al sicuro, di nuovo a casa. Anche se questo significava tornare senza di me.
«Siamo pronti. Vado a chiamare Moira e Toby», m'informò Ryan uscendo poi dalla camera.
Una volta da sola sospirai forte.
Mi avviai in bagno a grandi passi, forti e pesanti come macigni, proprio come il macigno che minacciava di schiacciarmi. Ero diventata inspiegabilmente tesa, ansiosa. Avevo un peso opprimente proprio sul petto ed era così strano.
Mi appoggiai sul lavabo mentre uno strano formicolio mi invadeva le spalle e poi le braccia. Che stava succedendo? Non volevo sentirmi così, dovevo essere pronta, ferma, decisa. Non dovevo vacillare, non potevo permettermelo.
Per tutto il giorno non avevo fatto altro che chiedere scusa a mio padre: la consapevolezza di averlo deluso era orribile, ma se fosse stato qui mi avrebbe detto di andare a prendere mio fratello e poi avrei pensato alle conseguenze.
Aprii il rubinetto e mi rinfrescai il viso con dell'acqua fredda. Andrà tutto bene, andrai lì fuori e farai quello che sai fare meglio, come sempre, senza esitare, continuavo a ripetermi fissandomi allo specchio.
Il segno al labbro c'era ancora così come i graffi sulla guancia, meno gonfia della sera prima.
Vidi apparire Ryan dietro di me dallo specchio.
«Dobbiamo andare», disse secco e io annuii.
«Ho pagato l'albergo e chiesto se potevano farci uscire dal retro», mi informò Ryan, mentre caricavo la mia Glock.
«E?»
«La receptionist si è stranita un po' per la mia richiesta, ma le ho mollato uno sguardo ammiccante e cento dollari mentre le stringevo la mano e alla fine ha ceduto.»
Sorrisi senza lasciare che lui mi vedesse, immaginandolo mentre cercava di sedurre una donna, e gli porsi la sua pistola che lui infilò nei pantaloni. Feci lo stesso con le altre due pistole, nascondendone i calci sotto la maglietta.
Tornai a guardare Ryan, in modo intenso, ed annuii. Lui annuì a sua volta, caricandosi il borsone in spalle e dirigendosi verso la porta con me al seguito. Era il momento.«Come al solito, voi ci farete da scorta e se le cose dovessero mettersi male, potrete intervenire, ma solo in quel momento. Chiaro?» annunciai quando Toby fermò l'auto poco lontano dalla stazione centrale.
«Ragazza, cosa ti fa pensare che rischierei per salvarti il culo?» Moira si voltò a guardarmi con una faccia sorpresa, ma io sapevo benissimo che stava scherzando. Come avevo detto a Ryan, era una cosa che avrei dovuto fare da sola, ma sia lui che Moira e Toby si erano rifiutati di restare in disparte. "E perdermi il divertimento?" aveva alzato un sopracciglio Moira, mentre Toby aveva fatto un cenno d'assenso con la testa e per lui era più di quanto avesse voluto dire.
«Coraggio ragazzina, datti una mossa!» continuò, invogliandomi a scendere.
Erano poco più delle dieci di sera e non c'erano molte persone in giro se non qualche pendolare che probabilmente aveva staccato tardi da lavoro.
Ryan mi stava dietro, attento a qualsiasi cosa ci si parasse davanti. Io invece mi concentravo per trovare le tre teste di serpenti.
Slow aveva parlato di gallerie, ma dov'erano? Il treno non viaggiava sottoterra. Che Slow mi avesse mentito? Se fosse stato così, avrei perso per sempre la possibilità di ritrovare mio fratello prima che quei bastardi trovassero me, ma in quel modo avrei perso anche il vantaggio di giocare d'attacco. Ma no, non poteva essere! L'espressione di Slow era stata troppo spaventata dall'idea di morire per dirmi una bugia, o almeno così credevo.
«Carter», chiamò Ryan che mi stava dietro di diversi metri. Era fermo davanti a una colonna color mogano, una mano poggiatavi sopra.
Una volta accanto a lui, spostai lo sguardo sulla colonna e qualcosa scattò in me: c'erano le tre teste di serpenti e io partii in quarta, gli occhi frenetici che cercavano i segni sulle mura che mi avrebbero condotta da mio fratello.
Ne avvistai un altro poco distante dal primo e aumentai i miei passi, persa in un impeto di eccitazione.
Un terzo disegno lo trovammo a terra, proprio davanti a una scalinata. Ma perché era lì? Se avessimo preso quelle scale saremmo usciti dalla ferrovia.
«Ma cosa ti ha detto esattamente Slow?» domandò Ryan, quasi col fiatone.
«Fanculo a Slow! Seguiamo questi cazzo di disegni, e vediamo dove ci portano!» affermai stizzita, ma non ero arrabbiata con Ryan. Non ero di certo la persona più tranquilla dell'anno in quel momento, in più non mi andava di giocare alla caccia al tesoro.
Scendemmo le scale che ci condussero proprio di fronte a un vicolo stretto.
Mi voltai a guardare Ryan, uno sguardo d'intesa, ed entrambi - prima di addentrarci in quella che sarebbe stata probabilmente la più difficile delle prove da superare - tirammo fuori le pistole, parandocele davanti, pronti a sparare a vista.
Ci muovevamo lenti, seguendo le svolte del vicolo e sempre sull'attenti.
Una volta certi di essere soli in quel vicolo scuro, ci "rilassammo" e abbassammo le pistole.
Sentii Ryan sospirare dietro di me e non riuscii a capire se fosse teso, impaurito o altro. Poteva tornare indietro quando voleva, e lui questo lo sapeva benissimo.
«Mi dispiace», mormorò d'un tratto, facendomi accigliare.
«Per cosa ti dispiace esattamente?» chiesi senza nemmeno voltarmi a guardarlo, non avevo tempo per fare conversazione. Avevo bisogno di trovare mio fratello, era l'unica cosa a cui pensavo.
«Di averti mentito», sospirò ancora.
Sollevai istintivamente l'angolo della bocca in un mezzo sorriso isterico; non avevo ancora mandato giù tutta quella storia, nonostante gli avvenimenti della notte precedente. Odiavo chi si prendeva gioco di me.
«Infatti, non avresti dovuto», puntualizzai, cercando di mantenere l'autocontrollo e non farmi sopraffare dalle emozioni. Ma non ce ne fu bisogno perché la vista del simbolo sul muro mi fece svoltare e aumentare il passo.
«E cosa avrei dovuto fare? Non mi avresti nemmeno guardato se ti avessi detto che ero il figlio di un poliziotto!»
«In effetti la prima volta che mi hai vista avevo appena ucciso due uomini, anch'io sarei stata scettica al riguardo», senza che me ne accorgessi avevo sdrammatizzato quel momento, proprio come faceva Ryan. La nuova me prendeva sempre di più le sembianze di Ryan e meno quelle della vecchia Billy.
«La prima volta che ti ho vista avevi tredici anni e te ne stavi in disparte a giocherellare con un cane sul ciglio della strada poco lontano da casa tua», affermò e io mi bloccai. Ogni parola che pronunciava mi provocava brividi e ricordi.
Mi ricordavo di Spyro, il randagio del nostro quartiere, e del modo in cui amava correre dietro la pallina che io gli lanciavo e riportarmela; adorava accompagnarmi a scuola: mi aspettava puntualmente tutte le mattine fuori casa così come all'uscita da scuola.
All'inizio avevo provato più volte a mandarlo via, ma ogni volta lui tornava e allora avevo lasciato perdere. Non volevo affezionarmi a lui, ma successe - inevitabilmente - e quando una macchina lo investì qualcosa si spezzò dentro di me. Quell'ultimo briciolo di cuore che mi era rimasto fu spazzato via da un uomo che non aveva sentito la sveglia e, andando di fretta, non aveva visto il cane attraversare. Non piansi. Non piangevo mai. Ma lo vendicai: per prima cosa cosparsi la sua preziosa macchina tirata a lucido di un rosso acceso. Non mi bastò. Qualche giorno dopo entrai in casa sua e rubai qualche oggetto prezioso. Fu da quel momento che iniziai a rubare.
«Di' qualcosa, ti prego», sussurrò Ryan, abbassando lo sguardo.
Continuai a fissarlo, concentrandomi davvero su di lui questa volta. E mi sentii diversa.
Già il fatto di non pensare solo alla mia vita ma soprattutto alla sua, la diceva lunga. E poco a poco mi rendevo conto che non era solo per un senso di gratitudine, un modo per ringraziarlo per avermi aiutata fino a quel momento. No. Era di più. Mi sentivo profondamente legata a quel ragazzo petulante, testardo, coraggioso e forte. E avevo sentito quel legame già dalla sera in cui avevano tentato di ucciderci nella vecchia casa dei miei genitori.
E capirlo mi spingeva a provare sensazioni che mi erano totalmente estranee. E se non fossi riuscita a gestirle? La cosa che più mi stupiva era la consapevolezza che Ryan mi era sempre stato accanto in un certo senso. Non solo in quei giorni, ma anche da bambini. Era rimasto sempre in disparte ad osservarmi.
Sentii una specie di calore nel petto, il cuore un martello pesante che batteva contro la gabbia toracica, e credo che fu proprio quello a spingermi verso di lui, afferrargli la nuca e posare le labbra sulle sue. Lo baciai come se fosse stata l'ultima possibilità concessami per farlo. Lui ricambiò e io avvertii il calore aumentare e racchiudermi come in una morsa.
Mi staccai da lui, ricordandomi di quello che dovevamo fare, ma mi concessi un'ultima occhiata intesa. «Finiamo questa cosa e torniamo a casa.»
Negli occhi di Ryan vidi comparire diverse emozioni che cercò di tenere a freno, quasi come facevo io. Si limitò a deglutire, e annuì.
Riprendemmo a seguire il percorso creato dai simboli, con le pistole parate in basso.
Ad un tratto sbucammo davanti a un cancello in rete metallica. La brezza che tirava mi faceva capire che eravamo accanto al molo. Quello doveva essere il cantiere navale di Portland.
Scavalcammo la rete e camminammo per qualche minuto, dopodiché mi schiacciai contro il muro trascinando Ryan con me quando vidi una sentinella camminare a passo lento verso l'entrata. La osservai, facendo il calcolo dei minuti che impiegava per fare il giro completo. Avevamo due minuti esatti per entrare prima che ritornasse all'entrata.
L'uomo indossava un giubbotto nero, era ovviamente armato di mitra e un berretto sulla testa. Quando si voltò di spalle per dirigersi sul retro della struttura, feci segno a Ryan di seguirmi: eravamo totalmente scoperti per almeno un paio di metri, ma potevamo entrare solo da lì. Avremmo dovuto essere veloci.
Scattai in avanti e corsi cercando di fare meno rumore possibile. Posai la pistola nel retro dei jeans e afferrai i coltellini, dopodiché mi voltai e sussurrai a Ryan "coprimi".
Corsi più veloce, infischiandomene se il rumore avrebbe attirato l'attenzione della sentinella. Era quello che volevo.
Difatti, avvertii i suoi passi e arrivai di fronte alla grossa entrata proprio mentre lui beccava Ryan che - furbamente - aveva riposto la pistola dei jeans.
«Ehi!» strillò il tizio con il berretto, puntandogli una torcia addosso. «Non puoi stare qui.»
«Scusa amico, è che avevo un gran bisogno di pisciare e mi sono perso», inventò al momento, facendomi alzare come al solito gli occhi al cielo per la sua teatralità. «Ma quello è vero? Che figo!» commentò riferendosi al mitra.
Ne approfittai e mi piazzai dietro l'uomo il tempo necessario per piantargli il coltellino nella giugulare. Si portò una mano alla gola mentre dalla ferita fuoriuscivano litri di sangue. Lo trascinai verso la penombra e lo adagiai a terra mentre piano smetteva di respirare. Gli tolsi il mitra dalle mani e me lo misi a tracolla. Feci un cenno con la testa a Ryan per invogliarlo a seguirmi.
Mentre avanzavamo e salivamo i gradini, infilai i coltelli negli anfibi e ripresi la pistola.
Avanzai, sbirciando all'interno per accertarmi che la strada fosse libera. Entrai, continuando a guardarmi attorno. Dovevano essere lì da qualche parte.
Avanzammo alla cieca alla nostra sinistra. L'ambiente era angusto, umido e completamente vuoto. La struttura era sostenuta da grosse travi di ferro, spesse e robuste.
Con la mano invitai Ryan a seguirmi mentre iniziavo a correre facendo pochissimo rumore.
«Non sparare a vista», gli sussurrai mentre estraevo di nuovo il coltellino dagli anfibi.
Ryan annuì, ma sul suo viso vidi balenare una nota di confusione. Se era qui che si nascondevano quei bastardi, volevo avvicinarmi quanto più potevo a Mike o a Paul, e questo voleva dire uccidere chiunque ci si parasse davanti senza far rumore.
Poco lontano dall'entrata c'erano dei grossi container di diversi colori. Erano sparpagliati per il perimetro e io li utilizzai come copertura. A volte facevo notare a Ryan di stare attento alle pozzanghere, sempre nel tentativo di non fare rumore.
Mentre svoltavo l'angolo tra due container mi ritrovai faccia a faccia con un ragazzo poco più grande di me.
Tutti e tre restammo immobili per qualche secondo a fissarci, in attesa della mossa dell'altro. Poi il ragazzo parlò in una lingua che non conoscevo e non ebbi nemmeno il tempo di capire quale fosse perché mi mossi veloce e con un gesto fulmineo gli tagliai la gola. Lo poggiai piano a terra e restai in ascolto di qualche rumore che potesse farci capire che eravamo stati scoperti. Niente.
La presenza del ragazzo era la conferma che Slow aveva detto la verità prima di morire. Speravo solo di essere arrivata in tempo.
«Che cosa aveva detto?» domandai a Ryan in tono sarcastico.
Successe tutto in un secondo: mi ritrovai scaraventata a terra per colpa di un forte calcio al centro del petto che mi mozzo il fiato. L'impatto mi aveva fatto volare il coltellino di mano e annebbiato la vista.
Alzai lo sguardo lentamente e con un po' di difficoltà vidi un grosso bestione che prendeva Ryan di peso e lo lanciava contro il muro. Sbatté la testa e io sgranai gli occhi. Il bestione mi si avvicinò e io lo fissai. Era robusto, un braccio era grande quanto la mia testa e aveva un'espressione incazzata sul volto.
«Aveva detto "non uccidermi"», mormorò con un accento strano e mi assestò un calcio in pieno viso.
La stanza girava e io lottavo per non perdere i sensi. Quel bastardo animale continuava a colpirmi senza lasciarmi nemmeno il tempo di provare ad alzarmi. Il fianco lanciava fitte di dolore inimmaginabili che minacciavano di farmi vomitare da un momento all'altro.
Ad un certo punto mi afferrò una gamba e un braccio, facendomi letteralmente volare contro uno dei container. Il forte urto aggiunse altro dolore a quello che già sentivo per il fianco. Era un'agonia.
E non gli bastava. Mi caricò di nuovo, questa volta facendomi sbattere contro il muro dove erano appoggiate travi di ferro e catene molto spesse.
Poggiai le mani a terra e cercai di alzarmi, ancora una volta. Se non mi fossi alzata in quell'istante mi avrebbe uccisa. Ma fu inutile.
Arrivò un altro calcio e io mi diedi per spacciata, ma quando voltai lo sguardo verso le travi e le catene che erano cadute accanto a me quando quel mostro mi aveva lanciata in aria, vidi un briciolo di speranza.
Afferrai veloce una trave non troppo grande e mi voltai così velocemente che lo schianto lo fece barcollare all'indietro. Quel momento mi diede la possibilità di mettermi seduta e colpirlo ancora nell'incavo delle ginocchia. Dopo diversi colpi si piegò a terra, in ginocchio. Era il momento.
Presi le grosse catene di ferro e gliele avvolsi al collo un paio di volte. Strinsi così forte la presa che pensai di aver perso la sensibilità nelle mani. Mollai la presa solo quando il bestione divenne porpora.
Le catene caddero a terra insieme al suo corpo inerme. Tirai un sospiro di sollievo e il secondo dopo una morsa mi si stringeva intorno al collo. Sentii tutta l'aria venire a mancarmi dai polmoni. Non riuscivo a fare nulla, non riuscivo a difendermi perché la stretta era troppo forte.
Poi qualcosa si abbatté sul mio aggressore, trascinandolo sul pavimento con sé, e io potei finalmente respirare aria. Mi massaggiai il collo e vidi Ryan riempire di pugni l'uomo che stava quasi per strangolarmi. Erano qui, e sapevano che c'eravamo anche noi.
Ryan stava avendo la meglio, quindi me la presi comoda per controllare che fossi ancora tutta intera. Il mitra era volato via mentre il bestione mi picchiava. Il fianco malridotto mi doleva maledettamente, tanto da farmi camminare posando il peso sul lato buono del mio corpo.
Superai un container e feci per piegarmi per raccogliere il mitra quando una scarica di colpi si abbatté nella mia direzione. Mi coprii la testa e mi nascosi dietro il container, e intanto toglievo la sicura alle pistole nei miei pantaloni.
Aspettai che la pioggia di colpi finisse e mi sporsi per sparare a mia volta. Stavo solo perdendo proiettili in quel modo, avevo bisogno di una linea di tiro pulita, maledizione!
Poi, mi ricordai delle bombe a mano che avevo attaccate sotto il seno. Mi accasciai a terra, posai le pistole e aprii velocemente la zip nel giubbotto nero dove sfilai una granata dalla fascia, tolsi la spoletta con i denti e la lancia in direzione degli uomini che mi avevano sparato addosso. «Buon compleanno, stronzi!»
Con Glock alla mano, corsi verso Ryan a tutta velocità e quando la bomba esplose ero già dietro il container di fronte a lui, che troneggiava sull'uomo morto. Ci coprimmo entrambi la testa con le mani.
Quando tornai a guardarlo notai che aveva un vistoso taglio sulla spalla che gli aveva stracciato la maglia e l'aveva macchiata di sangue.
Le orecchie mi fischiavano un po', ma mi alzai in piedi con il suo aiuto. La faccia mi tirava e quasi sicuramente avevo qualche taglio.
Sentii delle mani che battevano l'un l'altra in un applauso, e sia io che Ryan ci voltammo.
Due uomini avanzavano verso di noi: uno era basso e in carne, ed era quello che applaudiva come a volersi congratulare con me. Sfoggiava un sorriso che metteva i brividi.
L'altro, invece, era poco più alto del primo ma era molto magro. Anche lui aveva un accenno di sorrido sul viso. Al loro seguito, quasi nascosti nella penombra, una decina di uomini armati.
Tutto era chiaro. Quelli erano Mike e Paul, i bastardi che avevano ordinato la morte dei miei genitori.
Avanzai anch'io verso di loro: avevo la faccia contratta, me ne rendevo conto, la bocca chiusa in una linea dura, incazzata.
Il primo uomo, dallo sguardo avrei giurato che fosse Mike, smise di applaudire e aumentò il suo sorriso.
«Finalmente sei arrivata! Ti stavamo aspettando tutti con molta ansia! Non è vero, Paul?» esordì, per poi rivolgersi al suo socio.
Paul annuì, limitandosi a incrociare le braccia sul petto.
«Spero tu abbia quello che stiamo cercando da così tanto tempo, altrimenti avrai fatto un viaggio inutile», parlava con così tanta enfasi, e il suo tono di voce era acuto, sottile. Non gli si addiceva per niente.
«Dov'è mio fratello?»
«Oh, ma vedo che hai portato un amico! Mi dispiace, non ho il piacere di conoscerti..», continuò a parlare come se non mi avesse sentita, così mi assicurai che si concentrasse su di me.
Estrassi dall'anello la microcard, contenente quello per cui loro avevano ucciso.
Mike smise di ridere e mi fissò, Paul fece per avanzare ma fu bloccato dalla mano piena di anelli di Mike.
«Mi pare di aver chiesto dove sia mio fratello», ripetei, e stavolta ero sicura che mi avessero sentita forte e chiaro.
Mike fece un gesto con la mano e vidi del movimento dietro di lui. Era molto più vecchio rispetto a Paul, o meglio, mostrava molti anni in più rispetto a quanti ne mostrava Paul.
Un tizio bruno uscì dalla penombra e con lui c'era un bambino dai capelli corvini, più lunghi del solito. Ray. Sean. Mio fratello era vivo.
«Paige!» strillò, una volta avermi riconosciuta. L'uomo lo teneva per una spalla e quando mio fratello fece per avanzare lo bloccò, trascinandolo di nuovo dov'era prima.
«Lasciami», disse, scrollandosi la sua manona di dosso e guardandolo in malo modo. Poi, si rivolse a Mike. «Te l'avevo detto che mia sorella sarebbe arrivata e ti avrebbe fatto il culo!»
Restai sbalordita da quell'affermazione. Dove diavolo aveva sentito quelle cose? E che ne era del piccolo bambino che avevo lasciato quella sera per andare a prendere una cosa al bar? Quello era un giovane ragazzo, un po' sporco, ma che aveva sviluppato il caratteraccio di sua sorella.
Mike guardò prima lui, e poi me. «Credi che tua sorella sia migliore di tutti questi uomini? Ti ha solo riempito di bugie, Ray», gli comunicò e sul viso di mio fratello vidi arrivare la confusione.
Che bastardo! Prima che potessi anche solo muovermi, Ryan mi tenne stretta per un braccio.
«Ha mentito sul tuo nome, sul suo nome.. E sulla vostra provenienza! Voi siete come noi!»
«No!» strillai. «Noi non siamo come te. Tu hai ordinato la morte di mia madre, di mio padre. E tu», mi rivolsi a Paul. « ti sei alleato con lui e hai permesso che venissero uccisi. Lavoravano per te!»
«Quello stupido di tuo padre si è fatto prendere dai sensi di colpa troppo tardi! I codardi come lui meritano di morire!» mi rispose Paul, e potei accorgermi della sua rabbia repressa. Niente a che vedere con la mia, però.
«E' inutile tirar fuori vecchi rancori. Tu ci dai quello che vogliamo e noi ti ridiamo tuo fratello», ci interruppe Mike.
Mi venne da ridere sentirmi fare la ramanzina proprio da lui. Lui parlava di rancori? Proprio lui che voleva radere al suolo mezza America per un suo capriccio? Era la follia!
«Sai, ho letto e riletto molto i dati che contiene questa piccolina», parlai in tono calmo, ero sicura di quello che stavo per fare. «Ed è come se conoscessi a memoria tutto. E' tutto nella mia testa.»
Abbozzai un sorriso, che durò una frazione di secondo. Subito dopo, spezzai la microcard tra le mani, e la lanciai a terra. Le espressioni di Mike e Paul furono impagabili.
«Venitevi a prendere i vostri fottuti codici!»
Mike storse la bocca in un espressione mista tra disprezzo e rabbia. Inspirò, bloccandosi per un secondo.
Non li vidi, fu come una specie di sensazione dentro di me. Era come se gli uomini dietro quei due si stessero preparando a farci fuori, come animali pronti a scattare quando il proprio padrone avesse schioccato le dita.
«Prendeteli», disse in un grugnito Mike e senza perdere tempo avanzai di corsa verso uno degli scagnozzi di Mike.
Dovevo eliminarli uno ad uno.
Mentre correvo alzai lo sguardo in alto su una catena in ferro appesa alle grosse travi sulla mia testa.
Corsi veloce e mi aggrappai alla catena, dandomi lo slancio e riuscendo a dare un calcio in pieno viso al mio nemico. Lui cadde a terra, sbattendo la testa a sul suolo asfaltato. Io, invece, atterrai poco lontano da lui.
Voltai lo sguardo a sinistra, giusto in tempo per accorgermi di essere caricata da altri due uomini.
Cacciai fuori la pistola che mi volò dalle mani una volta che il ragazzo biondo mi assestò un calcio.
Parai due suoi colpi e lo spinsi col piede. Nel farlo, persi l'equilibrio e il secondo uomo mi imprigionò tra le sue braccia robuste. Stringeva e io provavo un dolore lancinante al fianco.
Il biondino si rialzò e si avvicinò con un ghigno. Mi afferrò per i capelli e li tirò all'indietro.
«Puttana!»
Con ogni briciolo di ferocia che avevo in corpo gli scagliai una piedata sul ginocchio che emise uno strano rumore. Il ragazzo grugnì di dolore e istintivamente si abbassò a terra, ma nel farlo la sua faccia incontrò la mia ginocchiata. Fece per cadere all'indietro e io - facendo uno sforzo sovrumano - alzai entrambe le gambe e mi diedi lo slancio sul suo corpo, spingendomi indietro: a mio vantaggio giocava il fatto che il bestione che mi teneva ferma, non si aspettava di certo che facessi una cosa del genere, né tantomeno che avessi tanta forza pur essendo ridotta così male.
Quindi la mia spinta riuscì a farlo indietreggiare fino a farlo sbattere contro il muro sul quale fuori uscivano dei grossi pezzi in ferro, appuntiti. Come se fossero utilizzato per appoggiarci qualcosa di molto pesante sopra.
Lo schianto mancò di poco quell'affare ma mi diede modo di liberarmi e voltarmi in tempo per sferrare un pugno nella sua trachea.
Dopodiché, con entrambe le mani, gli afferrai la testa, lo trascinai in avanti e poi di nuovo all'indietro; l'avevo spostato leggermente e nella sua schiena adesso era conficcato un grosso ferro appuntito. Aveva una pistola addosso, così la presi e recuperai anche la mia finita per terra. Tolsi le sicure e mi voltai verso Ryan che fronteggiava quasi tre uomini.
«È ora di finirla con questa stronzata!» esclamai e iniziai a sparare sui tre uomini che tentarono di ripararsi. Ryan approfittò di quella situazione e ne fece fuori due, mentre l'altro era stato colpito sulla nuca dai diversi proiettili delle mie pistole.
Mi avvicinai a lui accertandomi con lo sguardo che stesse bene: niente, dopo salvare mio fratello, mi importava solo della sua sicurezza. Era gravemente ferito al braccio, così - dandogli una delle pistole - gli afferrai la mano, stringendola, e facendogli girare il braccio in modo che potesse farmi vedere.
In una frazione di secondo il mio braccio fu attraversato da fitte di dolore che partivano dalla mia mano. Un proiettile aveva trapassato il centro della mia mano, e dalla faccia di Ryan, anche la sua.
Non ebbi nemmeno il tempo di girarmi che Ryan mi trascinò con sé al coperto dai colpi che ci piovvero addosso, sbattendomi contro la parete del container.
Abbassai lo sguardo sulle nostre mani imbrattate di sangue. Ero stata colpita alla mano destra e Ryan alla sinistra: era meglio così, io ero capace di sparare perfettamente anche con la sinistra mentre lui non molto.
Non ci fu bisogno di parlare, ci fissammo per qualche secondo negli occhi dopodiché uscimmo allo scoperto sparando ai nostri aggressori. Ma prima di farlo, mi ero ovviamente accertata che non ci fosse mio fratello.
Ne erano troppi, erano troppi uomini. Mentre eravamo concentrati, con la coda dell'occhio vidi un uomo che ci stava mirando con mitra. Sgranai gli occhi e imitando Ryan poco prima, lo tirai dietro il container.
Col fiatone, controllai i proiettili rimanenti nella mia pistola e, scoraggiata, chiusi gli occhi e poggiai la testa contro la parete in ferro.
«Sono troppi, e i proiettili troppo pochi..», ammisi con un sospiro.
Ryan scosse la testa. «Per una come te, è una passeggiata!»
Mi incoraggiò con un ghigno, ma io non riuscii nemmeno a fingere di sentirmi rassicurata.
Mi sporsi a guardare di nuovo l'orda di uomini che avanzavano verso di noi. Non avremmo potuto abbatterli frontalmente.
Con lo sguardo scrutai il cantiere in cui ci trovavamo per cercare un qualcosa da poter utilizzare a nostro vantaggio.
Quasi sopra le teste dei nostri aggressori c'erano delle corde appese al soffitto che tenevano altre travi di ferro. Sarebbe bastato che continuassero ad avanzare solo per un po', e se fossi riuscita a colpire le corde sarebbero stati schiacciati come insetti.
«Guarda lassù!» ordinai a Ryan. «Ci riesci a colpire quella corda?»
Lui rifletté sul da farsi, dopodiché annuì, anche se non sembrava tanto convinto.
«Hai un solo colpo, non puoi sbagliare», lo avvertii, e deglutii. Speravo di riuscire io a colpire quella corda.
«Ti dico io quando andare.»
Aspettai che avanzassero un altro po', e feci cenno a Ryan di prendere la mira.
«Uno.. Due.. Tre», sussurrai.
I colpi partirono insieme viaggiando parallelamente verso i due estremi delle corde, che si spezzarono rilasciando i pesanti pezzi in ferro proprio sopra gli uomini di Mike e Paul.
Alcune travi volarono anche sopra le nostre teste e noi ci schiacciammo contro la parete per non essere colpiti. Ryan mi fece scudo con il suo corpo e io lo osservai mentre mi rendevo conto che sarebbero stato pronto a difendermi anche rischiando di farsi seriamente male.
Approfittammo della confusione per iniziare a sparare di nuovo addosso a quei bastardi.
Come una specie di sesto senso mi voltai indietro, scoprendo di avere alle nostre spalle altri uomini che ci braccavano. Così come una decina di uomini che erano sopravvissuti allo schianto. Eravamo accerchiati.
«Giù le armi», tuonò uno di loro. «Giù, ho detto!»
Io e Ryan che eravamo schiena contro schiena, puntando le pistole davanti ai rispettivi nemici, non potemmo fare altro che eseguire gli ordini.
«Perquisiscila! Non mi fido di quella puttanella», ordinò lo stesso uomo al suo compagno, che si avvicinò a me con fare minaccioso.
Lo scrutai attentamente, cercando di ricordare i posti esatti in cui aveva addosso armi da fuoco.
Una volta di fronte a me, iniziò a tastarmi gambe, braccia e infine pancia dove notò qualcosa di strano. Potevo sentire l'agitazione di Ryan.
Mi aprì il giubbotto di pelle e mi trovò addosso tanto di quell'esplosivo da fare saltare in aria quel dannato posto.
«Cazzo Rob!» strillò e si voltò verso i suoi compagni. Con una mossa svelta, estrassi dal cinturino attaccato alla sua gamba la pistola e gliela piantai dell'addome, premendo il grilletto. Ryan si fiondò a terra per raccogliere la sua Glock e iniziò a sparare a raffica.
Mi feci scudo con quel corpo senza vita mentre i proiettili del suo fuoco amico gli si conficcavano nella carne, e avanzai di poco: quando ero sicura di avere un tiro pulito, portavo fuori il braccio e sparavo, fino a quando però la pistola si scaricò. Mollai sia l'uomo che la pistola inutile e con un piede tirai su una stecca di ferro, afferrandola tra le mani e colpendo in pieno viso l'uomo che mi stava venendo addosso.
Riuscii ad abbattere almeno tre uomini ma quando fui colpita di traverso, la potenza mi fece roteare su me stessa e farmi cadere con ginocchia e mani a terra. Alzai lo sguardo appannato in tempo per vedere un proiettile centrare il petto di Ryan.
Ci fu un suono assordante che mi riecheggiò nelle orecchie e nel cervello.
Ryan si guardò il petto perforato con un'espressione di stupore, e poi fissò me. Poco dopo crollò a terra, inerme.
Ci fu nuovamente quel suono straziante, accompagnato dal nome di Ryan. Fu come se a essere colpita fossi stata io. No, non era esatto, perché non avrei provato lo stesso dolore.
D'un tratto mi sentii le mani bagnate. Gli occhi avevano ripreso a vedere con chiarezza ma furono offuscati di nuovo, da qualcosa di ben diverso. Erano lacrime. Stavo piangendo.
Mi resi anche conto di essere io stessa a strillare in quel modo disumano. Chiamavo il nome di Ryan, ma era inutile e io lo sapevo. Ma in qualche modo il mio cervello aveva smesso di essere in contatto con il mio corpo. Era come se stessi vivendo quella scena ma non nel mio corpo. Non sentivo più niente se non dolore.
Quando poi, non avrei saputo dire quanto tempo dopo, quattro braccia mi afferrarono e mi alzarono di peso, iniziai a urlare di nuovo.
«No! Ryan! Svegliati! Ryan!» strillavo tanto da farmi bruciare la gola, ma lui era lì, steso al freddo e da solo.
E anche quando ci fu solo il buio intorno a me, l'unica cosa che riuscivo a sentire era l'eco del suo nome.
Ryan.///
Finalmente sono riuscita a completare questo capitolo. Lo so, sono imperdonabile per aver preso questa pausa infinita, ma davvero è stata forza maggiore a impedirmi di continuare. Adesso dovrei avere un periodo di tranquillità ( si spera ), così da potermi dedicare agli ultimi due capitolo di Revenge. Sta per arrivare la resa dei conti. E spero di non avervi scioccato troppo con la fine di questo capitolo.. In tal caso, chiedo venia! Ma lo sapete, la mente di chi ama scrivere è sempre imprevedibile! E ci terrei a ringraziare ogni singola persona che continua ad aspettare con pazienza la fine di Revenge.
Dato che come presta volto di Billy/Paige sto usando la mia amata Vanessa Hudgens, vorrei permettermi di dedicare questo capitolo al suo papà che è deceduto in seguito a una grave malattia. Mi stringo intorno al suo dolore, e posso solo immaginare quanto possa essere straziante perdere qualcuno che si ama.
In loving memory of GREG HUDGENS.
Rest in peace, daddy hudgens. <3
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Revenge [ COMPLETA - DA REVISIONARE ]
Action" «Non me ne importa un cazzo. Per me, possono parlare fino a quando non scoppiano loro le corde vocali. Non sanno quanto io mi rompa il culo. Non lo faccio per me, ma per lui. Magari non è il modo migliore per aiutarlo, ma so fare questo. Rubo, se...