1. Dodici anni dopo

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Di notte nel deserto le temperature si abbassavano a dismisura fino al rischio di congelamento. Il suo clan era nomade da secoli, nato e cresciuto in quel difficile ambiente e ne aveva preso le caratteristiche: coloro che ne facevano parte erano aspri e forti, legati dal sangue e dalla fedeltà al loro capo, Ubel, che era succeduto al precedente per meriti e votazioni e che da diversi anni ricopriva quel ruolo con estrema bravura. Nel loro clan ognuno aveva il proprio compito e tutti cercavano di svolgerlo al meglio delle loro possibilità per permettere alla loro comunità di prosperare.

Tutti, tranne una.

Zahira era raggomitolata nella sua coperta di pelliccia e ascoltava il vento impetuoso che frustava la sua tenda. Era una delle più giovani del clan e quel giorno avrebbe compiuto diciassette anni, mancavano solo pochi minuti.
Poi le avrebbero affidato il suo compito, che avrebbe svolto fino alla morte com'era tradizione.
A differenza delle altre ragazze, che erano state scelte all'età di quindici anni come mogli e future madri, a lei avevano concesso altro tempo, come ai ragazzi, perché era speciale.

Osservò la propria pelle chiara, in alcun modo bruciata dal sole come tutti gli altri, e si arricciò tra le dita una treccina fine e scura, ma non nera o bianca come i capelli degli altri componenti del suo clan.
Era di un rosso scuro e intenso, che sotto il sole si tingeva di riflessi quasi sanguigni. Le avevano detto che nella loro tribù ne nasceva uno ogni cent'anni come lei.

Si strinse nelle spalle, immaginando come sarebbe stato se fosse stata come le altre. Ci impiegò pochi secondi di riflessione prima di liberare un sospiro di sollievo dalle labbra appena schiuse.
No, non si vedeva proprio come Jinaf con due bambini pestiferi da rincorrere tutto il giorno, o come Rachin, intenta sempre a compiacere il marito con aria adorante. Tutto quello non sarebbe mai stato nella sua indole.

Lei amava viaggiare, scoprire vie sempre diverse per trovare nuove oasi, arrivare nelle rare città di pietra dai tetti piatti e dai giardini pendenti e immergersi negli aromi e nei colori dei mercati, contrattare insieme agli uomini e studiare le leggende che a ogni dove riusciva ad ascoltare. Non si interessava alle bancarelle di bigiotteria o di tessuti per farne vestiti colorati con cui attirare l'attenzione dei ragazzi, piuttosto agli incantatori di serpenti o ai mangiatori di coltelli.

Forse, era anche per quello che non aveva amici.

Il respiro agitato di Ismin le fece alzare il volto nella sua direzione, il suo giaciglio era appena distante due braccia da quello della sua tutrice. Il viso della donna dai capelli lunghissimi raccolti in un grosso intreccio sul capo e dalla pelle arrossata dal sole era corrucciato in una smorfia di dolore.

Zahira si chiese come mai la notte del suo compleanno avesse sempre dei terribili incubi e il motivo per cui non gliene volesse parlare, ormai non era più così tanto piccola e avrebbe potuto capirla.
Si alzò dal suo sacco e si avvolse con un mantello pesante, sospirando e cercando di scacciare tutti quei pensieri che la facevano sentire come se fosse ancora una bambina.

È ora.

Quell'unica frase scacciò via tutti gli altri e la ragazza prese un profondo respiro di incoraggiamento. Uscì dalla tenda nel momento esatto in cui il sole stava facendo capolino tra le dune dorate e il vento si stava abbassando.
Si passò una mano sul volto prima di dirigersi alla tenda di Ubel, il capo clan, colui che quel giorno le avrebbe rivelato ogni cosa, e proseguendo il cammino nella direzione della tenda centrale la ragazza si lasciò andare alle solite fantasticherie che la vedevano protagonista di chissà quali avventure in aiuto alle Sette Tribù del Deserto Vorace.

Strinse le mani, cercando di calmarsi inutilmente e di scacciare quelle idee assurde che le facevano brillare gli occhi.

Senza sapere che non aveva tutti i torti a sentirsi in quel modo, poiché proprio quel giorno avrebbe conosciuto il suo destino, anche se in maniera del tutto inaspettata...

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