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03/12/2016 - Londra


Salii gli scalini del portico di casa e suonai il citofono.

Avevo il fiatone, avevo corso.

Non sapevo perché avessi fretta. Forse volevo fuggire dalla delusione che mi pesava nel petto e forse perché non avevo la più pallida idea di come comportarmi con Liam, che, tra parentesi, mi stava aprendo la porta proprio in quel momento.

"Hey Harry!"

Lo guardai come in cerca di qualcosa da dire, quando un semplice 'ciao anche a te' sarebbe stato più che sufficiente. Ma ero come paralizzato, mentre tentavo di riprendere fiato.

"Tutto bene?" chiese, poggiandomi una mano sulla spalla per accompagnarmi in salotto.

"Sì, sì, tutto bene, ma..."

Per fortuna qualcosa mi bloccò. Anzi, qualcuno. Una voce familiare, la voce della mia infanzia e dei conforti notturni dopo gli incubi del periodo di Boston.

La voce di Gemma.

"Eccolo qua! Sempre più in forma!"

Le sorrisi e l'abbracciai perché mi era mancata. Eccome se mi era mancata. Mentre la tenevo tra le mie braccia e mi confessava che anche lei aveva sentito la mia mancanza e che il suo appartamento a Boston era tornato vuoto dopo la mia partenza, alzai lo sguardo e intravidi Liam appoggiato sullo stipite della porta che divideva il salone e la cucina. L'espressione addolcita dall'affetto fraterno di quell'abbraccio. Anche un po' malinconica, però.

"Perché hai il respiro corto?" domandò Gemma, guardandomi con apprensione dopo aver sciolto l'abbraccio.

"Ho corso," fu ciò che le risposi.

Lanciai un'occhiata a Liam e lui mi sorrise.

Perché sorridi? Dovresti essere incazzato, dovresti essere deluso il doppio di me, non dovresti pensare a Zayn in quel modo.

"Be', penso che vi lascerò soli," disse afferrando il giubbotto dall'appendiabiti e avviandosi verso la porta.

"Cosa? Dove vai?"

"Ma come, ti sei lamentato tutto ieri dicendomi che il frigorifero è vuoto da una settimana! Vado a fare la spesa, così ti tappi quella bocca. E poi questa sera vado a cena con Zayn, quindi volevo anche passare da lui," rispose, poi, come se si fosse improvvisamente ricordato dei programmi che avevamo per quella sera, mi guardò e, "parleremo meglio di Boston un'altra volta, okay? Oggi divertiti con tua sorella," aggiunse.

Fece l'occhiolino a Gemma e si rigirò.

Il primo istinto fu quello di avvertirlo, di bloccarlo dal prendere le chiavi di casa e di uscire chiudendosi la porta alle spalle.

Ma non lo fermai. Lo lasciai andare.

"Ci vediamo dopo."

Dovevo ancora capire se dirglielo sarebbe stata la scelta più corretta; e in quella circostanza decisi di aspettare, di prendermi del tempo per chiarire le idee. In quella circostanza non me la sarei sentita di infrangere i suoi sogni, di rivelargli l'illusione della quale era prigioniero.

No, non me la sentivo proprio.

"Che hai fatto?"

"No, nulla..." scossi la testa rispondendo a Gemma, mentre restavamo da soli e in piedi in mezzo al salotto. "Com'è andato il viaggio, piuttosto?"

Parlammo di Boston, di Holmes Chapel, dei miei genitori a casa, del suo nuovo lavoro in America, della rottura con il suo ragazzo, della vita un po' in generale e la lancetta dell'orologio si mosse con la sua costanza, con la sua velocità o con la sua lentezza; con lo stesso ritmo, ticchettante e monotono. Irrefrenabile.

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