12 Gennaio 2013
Non c'è più nessuno. Completamente deserta.
Le mattonelle rossastre dei muri sembrano ogni giorno più sbiadite e prive di vita. Come se lo smog e la folla del lunedì mattina le privassero del loro colore, facendole diventare a poco a poco piccoli spettri rettangolari.
Nessuno.
La banchina della stazione è immobile. Congelata nel tempo. In quel grigiore dei pomeriggi invernali che lava tutto via. Un fiume freddo. Non passa un autobus da un'ora. O forse un'ora e mezza, non so dirlo. Il tempo non esiste qui.
Cartelli pubblicitari e tabelle orarie giacciono appese ai muri della stazione. Fogli strappati, scritti. A terra, accanto alla panchina, ci sono mozziconi di sigarette ormai spenti e carte di caramelle. La porta dell'ufficio assistenza è chiusa.
Sono seduta su una panchina. Tengo il cappuccio della felpa sollevato sulla testa. Le lunghe ciocche bionde dei capelli fuoriescono. Il mio skateboard è sulla panchina, proprio accanto a me. Le mani, calde sotto i guanti, non smettono di tremare.
Io non smetto di tremare.
Papà arriverà a momenti. Ubriaco fradicio come sempre e con una buona bottiglia di Tuborg mezza piena. E dopo quindici anni ho ancora una paura tremenda che quella bottiglia, un giorno, si frantumerà sulla mia testa per un'ultima eterna volta e dopo il buio.
Non parlo mai con lui. Forse è dato dal fatto che sono sempre sola, oppure che non è mai a casa. Non è mio padre. Cioè, in teoria lo è, ma non voglio pensarla in questo modo. Non so come mia madre abbia fatto a conoscerlo. Mia madre, che viveva ad Oslo allora, dice che l'aveva conosciuto all'università, quando studiava psicologia a Roma. Quando, parole sue, ancora non aveva le idee chiare di cosa significava avere un rapporto con un'altra persona.
Il problema è che mio padre non ha mai frequentato l'università che io sappia. Non credo che nei suoi fugaci attimi di lucidità si sia mai messo a pensare alla possibilità di iscriversi ad un'università per completare i suoi studi.
Sollevo lo sguardo. Gli abeti sull'altro lato della strada, oltre la recinzione, sono di uno strano verde scuro. Quasi cinereo. Grigio. Il parco ha sempre questo strano colore.C'eravamo fermate sulle scale dietro la piazza. Stava piovendo fortissimo e non potevamo andare da nessuna parte, così abbiamo pensato bene di sederci e aspettare. Uno di quegli acquazzoni estivi, che portano frescura e noia nel bel mezzo della stagione.
Giulia è mia amica da un'eternità e non so cosa farei senza di lei. Impulsiva. Testarda. Un po' come me, soltanto con un po' più di indipendenza.
Da piccole giocavamo nel cortile di casa sua con i pupazzi. Era bellissimo. Poi siamo cresciute e giocare con i pupazzi era diventato un ricordo lontano.
A sei anni scoprimmo la casa dove ora, da ben nove anni, passiamo i pomeriggi insieme agli altri. Tra segreti, bei libri e odore di muffa.
L'inverno stava per arrivare. Ma ne io ne lei ci stavamo pensando, adesso.
Mentre guardavo la pioggia formare pozzanghere scure sull'asfalto, la sua voce mi fece tornare alla realtà. I lunghi capelli rossi erano un pugno nell'occhio nella monotonia del paesaggio attorno a noi.
" 'Ka," fece una pausa e aspirò dalla sigaretta. Una nuvoletta di fumo uscì fuori dalla bocca e congelò nell'aria fredda.
"Cosa ne pensi di Jacopo?"
Jacopo è nel nostro gruppo da sempre. Davvero da tanto tempo. È il più piccolo tra di noi, ma ha carattere. È molto coraggioso.
"Mi è simpatico. Nulla di più."
Non mi degno neppure di uno sguardo. Continuò a fumare. Aveva finito di piovere.
Ad un certo punto gettò a terra la sigaretta e mi guardò dritta negli occhi. Non ho mai capito di che colore fossero i suoi occhi. Se blu, grigi o verdi chiaro. Sembravano un po' un miscuglio di questi tre colori.
"A me non è simpatico. Affatto."
Ci alzammo di li e continuammo a camminare.Il rombo di un motore mi riporta alla realtà. Mi fa affiorare dal ricordo di un'estate lontana. Oramai andata.
Un motore vecchio. Il sangue mi gela ancora nelle vene. Dopo quindici anni.
La macchina di papà è ferma, vicino al marciapiede. È meglio non farlo aspettare. Lo so bene.
Prendo lo skate, mi alzo dalla panchina e mi dirigo verso la macchina bianca, mentre le mie gambe tremano. Apro lo sportello e mi siedo sul sedile posteriore.
Subito la puzza di liquore mi invade le narici e mi arriva dritta al cervello. Poggio lo skate sul sedile e la macchina incomincia a muoversi. Papà non mi ha ancora parlato. Credo sia sobrio oggi. Lo spero.
Il telefono vibra nella tasca. Lo tiro fuori.nuovo messaggio da Claudia
Apro la schermata dei messaggi e subito il messaggio appare davanti ai miei occhi.
Vieni da Jacopo. Adesso. Immediatamente. Non puoi capire ciò che è successo.
Faccio fatica a digitare la risposta. Ho le dita ghiacciate.
Cosa è successo?
Vieni e basta. È importante.
Devo far fermare papà. Adesso. La situazione sembra grave.
Non mi piace affatto.
" Papà fermati. Adesso."
In un momento papà accosta la macchina al lato della strada. Ma non riesco a spiegargli il motivo, che già sono scesa dalla macchina e sto correndo a perdifiato lungo il marciapiede.
Il grigiore invernale è padre del freddo. Ho la faccia ghiacciata e il cuore che mi sta fracassando il petto, come se volesse uscire. Vorrei essere un lupo in questi momenti. Corrono velocissimi.
I piedi mi fanno male nelle Converse. Sono quasi arrivata.
Giro a destra e sono davanti casa di Jacopo.
Salgo la salita. Ho il fiatone.
Vedo Claudia seduta sul muretto, a qualche metro da me. In volto, uno sguardo preoccupato e angosciato. Cosa è successo?
Mi avvicino a lei.
"Claudia ma co-" non faccio in tempo a terminare la frase che tre parole danno una risposta alle mie domande, ma ne creano altre a cui è molto più difficile rispondere."Jacopo è scomparso."

STAI LEGGENDO
l'occhio della volpe - a.g.
Mistério / SuspenseSalgo la salita. Ho il fiatone. Vedo Claudia seduta sul muretto, a qualche metro da me. In volto, uno sguardo preoccupato e angosciato. Cosa è successo? Mi avvicino a lei. "Claudia ma co-" non faccio in tempo a terminare la frase che tre parole dan...