Capitolo 4

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I giorni mi consumavano. Il tempo mi consumava.
Mi consuma la pelle, i tendini, i muscoli, si insinuava nelle vene, fino ad arrivare alle ossa ormai troppo deboli per sorreggere il mio muro di ferro.
Odiavo l'impotenza, la quale era l'unica cosa che ormai mi apparteneva da quando avevo messo piede lì dentro.
I giorni si erano trasformati in settimane, che a loro volta si erano mutate in mesi, e poi anni.

Ci stavo facendo la muffa lì.
Mi sembrava come se il Padrone mi stesse torturando facendomi ascoltare ciò che sarebbe accaduto a me prima o poi.
Facendomi ascoltare le grida di dolore e piacere; dei sentimenti opposti.
Marie non mi aveva permesso di inviare le lettere ad Harry e la mia famiglia, nonostante Sam avesse provato a convincerla più volte.

Sentivo il ricordo di Niall, Louis, Harry e i miei genitori farsi man mano più lontano.
Li riuscivo a vedere come una macchiolina minuscola su un muro bordò: quasi invisibile. Quasi.
Avevo paura di perdere il ricordo, di perdere il passato. Sam mi diceva che erano solamente le mie fobie futili, che non dovevo preoccuparmi, che certi ricordi erano impossibili da dimenticare, erano tatuati nel cuore.
Non aveva tutti i torti, ma sentivo che quelle cose che mi erano accadute appartenevano ad un'altra vita, ad un'altra me. Una me ormai morta.

Quel pomeriggio faceva davvero freddo, ma ormai non sentivo più nulla.
Il freddo non mi faceva più lo stesso effetto.
Stando lì, immobile, avevo imparato ad utilizzare l'autocontrollo.
Bastava chiudere gli occhi, prendere un respiro e lasciare che il freddo percorra la schiena, per poi trascinarsi una scia di brividi dietro il suo cammino.
Dopo, non sentivo più nulla. Il freddo diventava la mia coperta, la mia armatura.

Ero seduta sulla sedia della piccola sala in comune che avevamo, Sam faceva zapping tra i canali e, non trovando nulla di interessante, andò sulla BBC in cerca di qualche trasmissione o show televisivo britannico.
«Ah, non c'è niente.» sbuffò la bionda, Hayley, accanto a quella che era diventata la mia migliore amica.
«Tanto tra poco torneranno i Padroni...» disse con tristezza Lauren.
Durante la mia inutile permanenza erano arrivate altre sei ragazze, tutte avevano già il loro Padrone. Io ero l'unica senza e spesso ricevevo occhiatacce durante l'ora dei pasti o mentre camminavo lungo il corridoio.
Sam sbuffò e provò altri canali della BBC.
Mi si fermò improvvisamente il cuore.
Gli occhi mi pizzicarono e la vista venne occupata da fastidiose macchioline colorate.
«È in d-diretta?» chiesi alzandomi dalla poltroncina e raggiungendo, barcollante, il televisore.
«Sì, perché?» chiese Sam confusa.
Le mie mani iniziarono a tremare.
Il palco di X-Factor di Londra era calcato dal mio migliore amico. Louis era in TV. Louis era ad X-Factor.
Indossava dei jeans larghi, una t-shirt bianca semplice e le sue solite Vans nere e bianche. Era agitato e si muoveva nervosamente sui suoi piedi.
Iniziai a piangere silenziosamente e Sam corse da me.
Mi tiravo i capelli per soffocare i singhiozzi, mentre ascoltavo la voce del mio migliore amico rimbombare in tutta la sala mentre si presentava ai giudici.
«È davvero lui,» sussurrai, alternandomi a violenti singhiozzi.
Mi attaccai definitivamente allo schermo e cercai di accarezzare l'esile figura del ragazzo, cercai di avere un qualche contatto anche se sapevo che ciò era impossibile.
«Come ti chiami ragazzo?»
«Louis Tomlinson, ho diciannove anni, vengo dalla Spagna ma sono residente qui.»
A quelle parole scoppiai di nuovo in un fiume di lacrime che bagnarono la maglia di Sam, la quale mi strinse a sé e mi lasciò piangere.
Aveva capito tutto dalla presentazione di Louis.
Le avevo parlato tantissimo di lui, di quanto fosse fantastico, di quanto era indispensabile per me.
Iniziò a cantare e il mio cuore letteralmente si frantumò in mille pezzi.
La voce era un suono soave, che veniva però interrotto dalle mie grida che uscivano sempre più forti e frequenti.
«Io non c-ce la faccio!»
«Non può essere lui, i-io..non..»
Strinsi forte i pugni nella sua maglietta, ormai bagnata.
Quella dannata voce, così dolce e così tagliente per la mia anima vuota.
Era così bello, mi mancava così tanto.
Nonostante mi ero posta tante barriere, Louis era riuscito a buttarle giù con un solo sorriso.
Mi tappai le orecchie e nascosi il viso nell'incavo del collo di Sam.
Gridai forte.
Non mi interessava che stavo dando spettacolo.
Era troppo.
Era passato un anno, ed eccolo lì, in piedi su quel palco, con il microfono blu in mano davanti ai giudici londinesi, a far risuonare la voce in tutto lo studio.
Non appena finì l'audizione, tutti applaudirono.
«Grazie,» sorrise timido.
La sua timidezza, mi era mancata.
Mi mancava il suo profumo.
Mi mancava vederlo indossare tute larghe e felpe messe al contrario, tipico di Louis.
Il suo sorriso, mi era mancato.
La sua risata dopo che il giudice fece una battuta, mi era mancata.
E piangevo.
Lui sorrideva e io piangevo.
Non era giusto.
I suoi occhi come il cielo, mi erano mancati.
Ed io ero lì, dall'altra parte dello schermo, che lo guardavo.
E lui era lì, inconsapevole ed emozionato.
E lui era lì, già sognante di un futuro grandioso, pieno di gente che lo amerà, che lo apprezzerà.
Sognava e faceva bene.
Sognava perché lui poteva.
«Hai tre sì, Louis!» esclamò il terzo giudice, Simon Cowell.
«Oh! Grazie infinite!!» saltò di gioia e, dentro di me, gli feci i miei più sinceri auguri. Si meritava tutta la felicità di questo mondo.
«Sei venuto da solo?» chiese il giudice a sinistra.

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