Capitolo 5

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Marie bussò freneticamente alla mia porta e mi alzai sbuffando.
«Arrivo, arrivo!!» corsi inciampando sui miei piedi per raggiungere la maniglia della porta.
Avevo paura di ciò che avrebbe dovuto dirmi.
Mi ero aspettata che il Padrone fosse arrivato.
Mi ero aspettata che mi dicesse che sarebbe arrivato tra qualche gorno o addirittura mi ero aspettata che mi stesse già aspettando.
Ma mi sbagliavo.
Con mani tremanti aprii la porta e vidi il suo viso preoccupato.
«Sam non si sente bene. Vieni, presto!»
Il mio cuore riprese a battere con calma, ma non ero comunque tranquilla.
Mi affrettai a raggiungere camera sua.
La porta era socchiusa ed entrai senza farmi problemi a bussare.
«Sam?! Dove sei?»
Sentii dei conati di vomito provenire dal bagno.
«Oh, Dio.» sussurrai raggiungendola. Afferrai i lunghi capelli castani tenendoli stretti in aria per evitare che si sporcassero.
Finì di vomitare con dei colpi di tosse secchi, si lavò la bocca, si asciugò e tornò a sedersi sul letto senza dire una parola.

«È da più di una settimana che succede. Non ti ho detto niente perché pensavo fosse uno stupido virus o qualche indigestione, ma sto iniziando a preoccuparmi.»
Parlò dopo qualche secondo, biascicando le parole e parlando talmente piano che feci quasi fatica a sentirla. Parlava come se le costasse fatica farlo.
Fuori, il cielo era coperto dalle nuvole e la Grande Mela era già pienamente attiva. Potei vedere da lì le auto correre a destra e sinistra, persone indaffarate che si spingevano per andare a lavoro o chissà dove.
Il mondo fuori girava, andava avanti.

Sam mi guardò negli occhi e vidi la paura nel suo sguardo, che riportò poi di nuovo sulle sue mani che giocherellavano con l'elastico dei leggins neri.
I suoi occhi stanchi, gonfi e cerchiati da profonde occhiaie. Stava male, non solo fisicamente. Era stanca.

«Hai mangiato qualcosa recentemente che non ti ha fatto bene?» domandai, non sapendo cosa dire.
Avevo paura che la nausea fosse causata da quella cosa.
«No, non è questo.» sussurrò poi guardando fuori.
Le mani erano intrecciate all'altezza del ventre e tremavano. Le guardò.

«Ho paura di essere incinta.» disse coprendosi il viso con le mani e scoppiò in singhiozzi.
Crollò come le Torri Gemelle: in un attimo.
Mi mancò il respiro.
«N-no, non deve essere per forza quello, non può..» annaspai con le parole.
«È l'unica risposta a questo mio vomitare di continuo, il frequente mal di testa, mal di schiena...»
«Quando ti sarebbe dovuto tornare il ciclo?»
«Il fine settimana scorso.» tremò.
«Devi controllarti. Subito.» dissi alzandomi dal letto per chiamare Marie.
«No, fermati.» mi voltai, richiamata dalla sua voce spezzata.
«Se poi sono davvero incinta... Non so che fine faccio. Non so se mi ammazzano o-»
«Ehi, ehi, andrà tutto bene. Non ti ammazzeranno per questo.» mi avvicinai a lei e le accarezzai la guancia.
«Devo chiamare Marie, dobbiamo fare il test per forza.»
«No, Shirley, no, ti prego.» pianse e si strofinò l'occhio destro con un pugno chiuso.
Sospirai e mi sedetti accanto a lei.
«Può anche darsi che non sei incinta, Sam.»
«E allora cosa, Shirley, cosa?! » alzò il tono di voce e mi guardò.
Nel mio cuore sapevo che probabilmente l'unica risposta giusta era quella.
Non c'era altra spiegazione, ma non volevo ammetterlo né a me, né a Sam.
«Sam, anch'io ho paura. Andremo attraverso questa cosa insieme. Okay?» annuì poco convinta e mi lasciò chiamare la donna anzianotta.
Mi consegnò il test che teneva nescosto nella credenza del suo bagno, - in casi di emergenza, mi aveva detto -, e tornai in camera di Sam.
La trovai appollaiata sul davanzale della finestra che guardava lontano. Probabilmente si stava sforzando di farsi crescere un paio d'ali sulla schiena per poi volare via lontano. Lontano da questo schifo di posto.
«Tieni,» sussurrai andando verso la ragazza. Lei l'afferrò titubante e si recò in bagno, chiudendo la porta dietro di sé.

Harry.

Era passato ormai un anno e io e Louis facevamo fatica a riprenderci.
Il ricordo di quella giornata era ancora fresco nella mia mente, come la pittura su un quadro appena dipinto.
Dopo quel giorno, Louis si trasferì da me, Lottie tornò da sua madre e la vita andò avanti così.
Andò avanti per modo di dire. Durante i primi mesi avevamo entrambi incubi, ci ritrovavamo ad urlare durante la notte e ci consolavamo a vicenda. Ci appallottolavamo sotto le coperte cercando di scacciare via il suo pensiero.
Non la volevo più.
A momenti volevo dimenticarmi di Shirley perché soffrivo troppo, mi strappavo i capelli e piangevo.
Louis stava peggio: non piangeva mai.
Agli occhi degli altri poteva sembrare un miglioramento, ma non era affatto così.
Louis soffriva nel suo religioso silenzio, si lacerava il cuore, gridava dentro, le ossa che lo tenevano in piedi si sgretolavano, moriva lentamente. A volte fissava il muro per ore senza battere ciglio e non rispondeva alle mie domande.
Avevamo provato ad andare da un professionista e all'inizio fu un vero e proprio suicidio. Louis non parlava mai. Mai una parola. Lo guardava negli occhi, con quello sguardo ormai spento e non più brillante.
Mi mancava Louis. Lo stavo perdendo.

Pian piano riuscimmo a sbloccarci, lo strizzacervelli riuscì ad aiutarci. Strizzacervelli, era questa la parola che usavo per far sorridere Louis, anche se era solo un accenno di sorriso, per me era una vittoria.
Senza di lei la nostra vita era diventata grigia, in bianco e nero, senza colore, senza divertimento, senza amore.
Mi chiedevo di continuo dove fosse finita, chi l'avesse presa, se le avessero fatto del male.
Mi chiedevo se lei sentiva la nostra mancanza.

Mi avevano assunto alla casa editrice, ma non riuscivo ad essere felice per questo. Certo, ero soddisfatto, ma non ero felice.
Spesso mi riguardavo tutte le foto che avevo con lei, mi rileggevo tutte le lettere, e ne avevo scritte altre.
Scaraventavo le parole sul foglio, con violenza, con rabbia, con tristezza.
La scrittura era diventata il mio mondo e pian piano la mia via d'uscita da questa morte lenta dell'anima.

Lentamente Louis stava tornando quello di prima, lo stavo accompagnando al provino di X-Factor ed era nervosissimo.
«Vedrai che ce la farai, Lou.»
Dissi parcheggiando l'auto fuori dallo studio.
Si mordicchiava le unghia provocando pellicine attorno ad esse.
«E se non sono all'altezza?»
«Tranquillo Lou, anche se sei alto un metro e settanta - con i tacchi - ti faranno entrare.» mi diede uno schiaffo sulla schiena e vidi il suo sorriso sbocciare come le rose in primavera.
Si stava riprendendo. Ce la faceva.
Attendemmo un sacco di tempo in coda e quando fu, finalmente, il suo turno disse «Non ci voglio più andare. Me ne vado a casa.»
«Stai zitto, porta il tuo gran culo sopra il palco e canta.»
«No.»
«Cristo, fallo per lei. Lei avrebbe voluto.»
A quelle parole vidi la sua pelle essere attraversata da piccoli brividi.
Scosse il corpo e annuì appena.
«Il prossimo!» gridò un uomo dello staff dietro le quinte.
«Coraggio, coraggio! Fagli il culo a quel frocio di Simon!» scherzai abbracciandolo forte.
«Tu ce la farai, Lou.» gli sussurrai nell'orecchio prima che corse sul palco.
Si muoveva nervosamente, molleggiando sui piedi.
Si presentò e dopo un giro di parole, cantò.
La sua voce dolce rilassò i miei muscoli e mi abbandonai a quel suono soave.
Se un giudice avesse detto no, sarebbe stato un coglione, un cretino, un deficiente.
Era un talento.
Ce l'aveva nel sangue.
Appena le note invasero lo studio si poteva perfettamente percepire il suo cambio d'umore improvviso.
I suoi muscoli erano rilassati e gli occhi chiusi.
La mano sul diaframma, tipico di Louis.
Quando finì l'audizione, il pubblico applaudì fortemente e anche due dei giudici.
Lui ringraziava e sorrideva.
Gli occhi lucidi avevano ripreso il loro colore vivo, quello di una volta.
«Sei venuto da solo?»
«No, c'è il mio migliore amico dietro le quinte.» disse diventando un po' rosso.
Vidi le telecamere riprendermi e scossi la testa, sorridendo. Qualche secondo dopo l'attenzione ritornò al mio migliore amico che, dopo aver salutato i giudici, corse dietro le quinte. Lo strinsi in un forte abbraccio, sussurrandogli nelle orecchie che ce l'aveva fatta, che nonostante tutto lui era riuscito a calcare quel palco, che adesso il resto non aveva importanza e che Shirley sarebbe stata fiera di lui.

«E se invece non mi prendono? se mi eliminano subito?»
«Non succederà. Non hai visto il modo in cui ti hanno applaudito e guardato? hai spaccato alla grande e non ti elimineranno alla prima botta, vedrai.» lo rassicurai, accarezzandogli il ciuffo moro di capelli che ricadeva fastidiosamente sulla sua fronte.
Esitò un po’ prima di parlare.
«Harry?» alzò la testa per incontrare il mio sguardo.
«Dimmi Lou.»
«Grazie.» sussurrò poggiando la testa sulla mia spalla.

Note:
Capitolo di merda e corto, lo so. Faccio molta fatica a continuare il sequel ma spero che vi piaccia lo stesso... Lasciate tanti commenti e voti per favore,❤.
Segnalatemi se ci sono errori.

Love you, xx.

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