~parte 13~

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«Che strano,» si disse Alex, «avevo la netta sensazione che quella ragazza mi stesse seguendo.»

Cercando inutilmente di ricordare le fattezze di quel viso diafano, si rimise a correre pensieroso. Fece un giro completo del percorso, si avvicinò al chiosco delle bibite chiuso, al palco per i concerti deserto ma niente, della ragazza bionda nessuna traccia.

Decise che per quel giorno aveva corso abbastanza e si diresse verso casa.

Nel frattempo all'ospedale Eluana si era risvegliata e sedeva sopra il letto a gambe incrociate e aspettava che succedesse qualcosa. La stanza era in penombra, tutto sembrava silenzioso e lontano. Da quando era stata ricoverata aveva avuto la netta sensazione che qualcosa dentro di lei fosse cambiato per sempre. Aveva sviluppato un istinto che le intimava inesorabilmente di uscire di là e scappare via. Ma dove?

La sua percezione delle cose si era affinata, ora sentiva e vedeva meglio, captava suoni e vibrazioni a grande distanza e distingueva il cambiamento dei colori e della luce. Stava acquattata come una tigre nascosta nella foresta, in attesa della sua preda. Ma in quella stanza non c'era niente e nessuno. I suoni arrivavano da lontano, lei li sentiva: suoni strani, quei maledetti tasti di pianoforte che le battevano in testa, un chiacchiericcio tutto intorno, e le voci delle persone, uomini, donne, bambini, i vagiti dei neonati del reparto di ostetricia, così lontani da lei eppure così dannatamente nitidi. Eluana si portò le mani alle orecchie per zittire quel frastuono, ma non le servì a nulla perché tutto quello che udiva nasceva dentro di lei.

La porta era chiusa e lei era sola in quella stanza, eppure le voci erano lì e la ossessionavano, curiose, maleducate, a volte bisbiglianti a volte bramose di farsi sentire e di farsi obbedire.

«Cosa fai ancora qui?» diceva una voce.

«Questo non è il posto per te,» replicava un'altra, «scappa! Scappa!»

«Piccola troietta,» si fece spazio una voce prepotente e malvagia, «è inutile che scappi, questo è il tuo posto. È qui che devi morire!»

Eluana gridò spaventata e cadde sul pavimento freddo, rannicchiandosi come un feto. Tremava dalla paura e dallo smarrimento.

«Cosa sono diventata? Perché sono qui? Aiuto! Aiuto! Mamma!»

Singhiozzando iniziò a darsi pugni sulla testa, pugni forti, sulle tempie, sugli occhi, sugli zigomi, sulla fronte. Voleva farsi male, voleva svenire e non svegliarsi più.

Perché nessuno arrivava ad aiutarla? Perché non la lasciavano morire come voleva lei? Perché era rinchiusa in quella stanza, sola con le voci e le allucinazioni che la perseguitavano? Era meglio morire subito che vivere in quel modo.

Mentre Eluana si disperava, dallo spiraglio della porta spuntò una sagoma azzurrina. Una ragazza minuta con pochissimi capelli in testa e con addosso solo il camice ospedaliero la guardava incuriosita con occhi grandi ed espressivi. Troppo magra, troppo bassa, aveva di vivo soltanto lo sguardo acuto e intelligente. Guardava Eluana e nel frattempo si succhiava avidamente il pollice sinistro.

Eluana si accorse di lei, smise di piangere e si alzò da terra. Con la sola forza del suo sguardo, la ragazza ordinò a Eluana di andarsi a lavare. Eluana sentì nascere dentro di sé una strana calma interiore e senza dire una parola le obbedì. Andò nel bagno privo di specchio e cominciò a sciacquarsi lentamente mani e braccia. Non poteva vedere i lividi che si era procurata picchiandosi, ma aveva un occhio tumefatto e un grosso ematoma sulla mascella destra. Senza asciugarsi, tornò gocciolando verso la porta. Entrambe le ragazze, vestite con lo stesso camice, erano scalze e sembrava che a nessuna importasse quanto il pavimento fosse freddo.

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