18. I rapporti umani

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"I rapporti umani"

Racconto di Natalia Ginzburg estratto dalla rivista aziendale "Il gatto
selvatico" (ottobre 1957).

L'infanzia
Al centro della nostra vita sta il problema dei nostri rapporti umani: appena ne
diventiamo consapevoli, cioè appena ci si presenta come un chiaro problema, e non
più come confusa sofferenza, prendiamo a ricercarne le tracce e a ricostruirne la storia
lungo tutta la nostra vita.
Nell'infanzia, abbiamo soprattutto gli occhi fissi al mondo degli adulti, buio e
misterioso per noi. Esso ci sembra assurdo, perchè non capiamo nulla delle parole che
gli adulti si scambiano fra loro, né il senso delle loro decisioni e azioni, né le cause dei
loro mutamenti d'umore, delle loro collere improvvise. Le parole che si scambiano
gli adulti fra loro non le capiamo e non ci interessano, anzi ci annoiano infinitamente.
Ci interessano invece le loro decisioni che possono spostare il corso delle nostre
giornate, i malumori che offuscano i pranzi e le cene, lo sbattere improvviso di porte e
lo scoppio di voci nella notte. Abbiamo capito che in un momento qualunque, da un
tranquillo scambio di parole può scatenarsi una tempesta improvvisa, con rumori di
porte sbattute e di oggetti scagliati. Noi vigiliamo inquieti ogni minima incrinatura
violenta nelle voci che parlano. Succede che siamo soli e assorti in un gioco, e
d'improvviso s'alzano nella casa quelle voci di collera: seguitiamo meccanicamente a
giocare, a conficcare sassi ed erbe in un mucchietto di terra per fare una collina: ma
intanto non ce ne importa più niente di quella collina, sentiamo che non potremo
essere felici finché la pace non sarà tornata in casa; le porte sbattono e noi
sussultiamo; parole rabbiose volano da una stanza all'altra, parole incomprensibili per
noi, non cerchiamo di capirle né di scoprire le ragioni oscure che le hanno dettate,
confusamente pensiamo che dovrà trattarsi di ragioni orribili: tutto l'assurdo mistero
degli adulti pesa su di noi. Tante volte complica i nostri rapporti col mondo dei nostri
simili, i bambini: tante volte abbiamo, con noi un amico venuto a giocare, facciamo
con lui una collina, e una porta sbattuta ci dice che è finita la pace; ardendo di
vergogna, fingiamo d'interessarci moltissimo alla collina, ci sforziamo di distrarre
l'attenzione del nostro amico da quelle voci selvagge che risuonano per la casa: con le
mani diventate a un tratto molli e stanche, conficchiamo accuratamente dei legnetti
nel mucchio di terra. Siamo assolutamente certi che in casa del nostro amico non si
litiga mai, non si gridano mai selvagge parole; in casa del nostro amico tutti sono
educati e sereni, litigare è una particolare vergogna di casa nostra: poi un giorno
scopriremo con grande sollievo che si litiga anche in casa del nostro amico allo stesso
modo come da noi, si litiga forse in tutte le case della terra.

L'adolescenza

Siamo entrati nell'adolescenza quando le parole che si scambiano gli adulti fra loro ci
diventano intelligibili; intelligibili ma senza importanza per noi, perchè ci è diventato
indifferente che in casa nostra regni o no la pace. Ora possiamo seguire la trama delle
liti domestiche, prevederne il corso e la durata: e non ne siamo più spaventati, le
porte sbattono e non sussultiamo; la casa non è più per noi quello che era prima: non
è più il punto da cui guardiamo tutto il resto dell'universo, è un luogo dove per caso
mangiamo e abitiamo: mangiamo in fretta prestando un orecchio distratto alle parole
degli adulti, parole che ci sono intelligibili ma che ci sembrano inutili; mangiamo e
scappiamo nella nostra stanza di corsa per non sentire tutte quelle parole inutili: e
possiamo essere molto felici anche se gli adulti intorno a noi litigano e si tengono il
muso per giorni e giorni. Tutto quello che ci importa non succede più fra le pareti dicasa nostra, ma fuori, per la strada e a scuola: sentiamo che non possiamo essere
felici se a scuola gli altri ragazzi ci hanno un po' disprezzato.
Confusamente sentiamo che se ci disprezzano è soprattutto per colpa della nostra
timidezza: chi sa, forse quel lontano momento in cui facevamo una collina di terra col
nostro amico, e le porte sbattevano e risuonavano voci selvagge e la vergogna ci
bruciava le guance, quel momento forse ha gettato in noi le radici della timidezza: e
pensiamo di dover spendere la vita intera a liberarci dalla timidezza, a imparare a
muoverci nello sguardo degli altri con la stessa baldanza e sbadataggine di quando
siamo soli. La nostra timidezza ci appare come il più grave ostacolo a ottenere la
simpatia e il consenso universale: e abbiamo fame e sete di questo consenso: nelle nostre fantasticherie, ci vediamo andare a cavallo trionfalmente per le città, in una
folla che ci acclama e ci adora.
A casa, quegli adulti che per tanti anni ci avevano pesato addosso col loro assurdo
mistero, noi li castighiamo ora con un profondo disprezzo, col mutismo e
l'impenetrabilità del nostro viso; ci hanno ossessionato per tanti anni col loro mistero, e noi ora ci vendichiamo opponendo loro il nostro mistero, un viso impenetrabile e
muto, degli occhi di pietra. E anche ci vendichiamo sugli adulti di casa nostra, del disprezzo che hanno i nostri compagni per noi. Quel disprezzo ci sembra che investa
non la nostra sola persona, ma tutta la nostra famiglia, la nostra condizione sociale, i mobili e le suppellettili di casa nostra, i modi e le consuetudini dei nostri genitori.
Scoppiano di tanto in tanto per casa le collere d'una volta, magari adesso destate da noi, dal nostro viso di pietra: ci assale un turbine di parole violente, le porte sbattono ma non sussultiamo: sbattono adesso per noi, contro di noi che restiamo a tavola
immobili, con un superbo sorriso: più tardi, soli nella nostra stanza, si scioglierà d'un
tratto quel nostro sorriso superbo e scoppieremo a piangere, fantasticando sulla nostra solitudine e sull'incomprensione degli altri per noi; e sentiremo uno strano
piacere a versare lagrime scottanti, a soffocare nel cuscino i singhiozzi. Sopraggiunge allora nostra madre, si commuove alla vista delle nostre lagrime, ci offre di portarci a
prendere un gelato o al cinematografo; con gli occhi rossi e gonfi ma di nuovo il viso
impietrito e impenetrabile, sediamo accanto a nostra madre al tavolino d'un caffè mangiando il gelato a piccolissimi cucchiaini: e tutt'intorno a noi si muove una folla di gente che ci sembra serena e leggera, mentre noi, noi siamo quello che c'è di più
tetro, goffo e detestabile sulla terra.
Chi sono gli altri e chi siamo noi? ci chiediamo. Restiamo a volte tutto un pomeriggio soli nella nostra stanza, a pensare: con un vago senso di vertigine, ci chiediamo se gli
altri esistano veramente o se siamo noi che li inventiamo. Ci diciamo che forse, in
nostra assenza, tutti gli altri cessano di esistere, scompaiono in un soffio: e
miracolosamente risorgono, scaturiti d'un tratto dalla terra, non appena guardiamo.
Non ci potrà succedere forse che un giorno, voltandoci d'improvviso, non troveremo
niente, nessuno, sporgeremo la testa sul vuoto? E allora non c'è ragione, ci diciamo,
di sentire tanta tristezza per il disprezzo degli altri: degli altri che forse non esistono, che dunque non pensano nulla né di noi né di sé. Mentre siamo assorti in questi
pensieri vertiginosi, viene nostra madre a proporci di uscire a prendere un gelato: e ci sentiamo allora inesplicabilmente felici, smodatamente felici, per quel gelato che
mangeremo, fra poco: e come mai una tale felicità in noi, ci chiediamo, per la
prospettiva d'un gelato, in noi che siamo così adulti nei nostri vertiginosi pensieri, così stranamente perduti in un mondo di ombre? Accettiamo la proposta di nostra madre, ma ci guardiamo bene dal mostrarle che ne abbiamo un grande piacere: a labbra
sigillate camminiamo con lei verso il caffè.
Sempre dicendoci che gli altri non esistono forse, che siamo noi a inventarli, seguitiamo inesplicabilmente a soffrire per il disprezzo che ci dimostrano i nostri
compagni di scuola, per la pesantezza e la goffaggine della nostra persona, così degna di sprezzo a nostro stesso giudizio da fare vergogna: quando gli altri ci parlano,vorremmo coprirci il viso con le due mani tanto ci sembra brutto, informe il nostro viso: e tuttavia sempre fantastichiamo che qualcuno s'innamori di noi, ci veda mentre prendiamo il gelato con nostra madre al caffè, ci segua di nascosto fino a casa e ci
scriva una lettera d'amore: aspettiamo questa lettera, ogni giorno ci stupiamo
profondamente di non averla ricevuta ancora; ne sappiamo delle frasi a memoria, tante volte le abbiamo mormorate dentro di noi; allora, quando questa lettera sarà
arrivata, avremo davvero un ricco mistero fuori di casa, una storia segreta che
s'intreccerà tutta fuori di casa; perchè, adesso, dobbiamo confessare a noi stessi che il nostro mistero è una povera cosa, è ben poco quel che si nasconde dietro la nostra
fronte di pietra, che presentiamo ai nostri genitori per il bacio serale; dopo quel bacio, scappiamo di gran corsa nella nostra stanza, mentre i nostri genitori si bisbigliano domande sospettose su di noi.
Al mattino, ce ne andiamo a scuola dopo aver fissato con preoccupazione nello
specchio il nostro viso: il nostro viso ha perduto la vellutata delicatezza dell'infanzia; noi pensiamo allora con rimpianto all'infanzia, a quando facevamo delle colline di terra, e il nostro solo dolore era se litigavano in casa; adesso in casa non si litiga più così spesso, i nostri fratelli maggiori sono andati ad abitare per conto proprio, i nostri
genitori sono diventati più vecchi e tranquilli; ma della casa non ce ne importa più niente; camminiamo verso la scuola, soli nella nebbia; quando eravamo piccini, nostra madre ci accompagnava a scuola, ci veniva a prendere: adesso siamo soli nella
nebbia, terribilmente responsabili di tutto quel che facciamo.

Natalia Ginzburg

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