Capitolo 7

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«Bethy c'è un pacchetto per te!» urlò mia madre dal soggiorno.
Scesi le scale di corsa, elettrizzata, ormai non ricevevo più niente per posta. Prima ricevevo, ogni settimana, lettere da parte di mio fratello, dove scriveva come stava e le sue solite cazzate per tirarmi su il morale. E io mi diverto a rispondergli con papiri di parole -molto spesso, senza senso- in cui raccontavo le mie monotone giornate.
Presi dalle mani di mia madre il pacchetto, iniziai a scuoterlo, a tastarlo, perfino ad annusarlo.
Mi misi a sedere e lo scartati, estraendone un libro.
Rimasi senza fiato, era una prima edizione del "Racconto di due città" di Charles Dickens, delicatamente voltai la prima pagina e vi trovai un biglietto, con una dedica:
"Non esisteva spettacolo più triste sul quale sorgere che quello di un uomo di buone qualità e buoni sentimenti, incapace di indirizzarli, incapace di aiutarsi e di rendersi felice, un uomo sensibile, succube della propria sorte avversa e rassegnato a farsi da essa divorare."
Firmato: "Dorian Gray"
Il mio entusiasmo si bloccò di colpo, chiusi il libro e uscii in corridoio.
Non lo volevo, non se era da lui, non dopo quello che era successo il giorno prima.
Bussai alla sua porta ma nessuno venne ad aprire, bussai un'altra volta, niente ancora.
Appoggiai l'orecchio alla porta e rimasi in ascolto, sentii delle voci parlare.
Sbuffai e inizia a tallonare la porta, con più forza possibile.
«Dorian! So che sei in casa! Vieni fuori o ti dò fuoco vivo te e il tuo ritratto!» dissi, continuando a tallonare la porta ma nessuno rispose.
Sbattei i piedi per terra, lancia un grido irritato e tornai a casa.
Posai il libro sul bancone, andai in camera mia, mi cambiai e presi mia mamma sotto braccio.
«Cosa succede?» chiese lei sgranando gli occhi.
«Usciamo di casa prima che dia fuoco al nostro vicino» dissi, facendo un grande sorriso e la trascinai fuori di casa.
Lei impuntò piedi e si bloccò. «Devo cambiarmi! Intanto tu vai» disse lei ridendo.
Annuii e uscii in corridoio.
Mancavano due settimane all'inizio della scuola e di sicuro non le avrei passate a litigare con lo stronzo.
Averi passato più tempo possibile con mia madre, come eravamo abituare a fare prima che lei iniziasse a lavorare ventiquattr'ore su ventiquattro.
Entrai in ascensore e prima che si chiudessero le porte, dall'appartamento uscì Thomas e la solita ragazza.
Lei si sporse e lo baciò, passionalmente, mentre lui le accarezzò la guancia.
«Che bastardo!» sbottai.
Lui si girò a guardarmi e, per la prima volta, nei suoi occhi vidi la preoccupazione.
La ragazza rise, lui si staccò da lei e corse verso l'ascensore ma prima che potesse entrare, gli lanciai la borsa.
E le porte si chiusero e io mi accasciai contro la parete, mentre le lacrime iniziarono a rigarmi il viso.
Ecco perché non gli credevo...
                           ****
Erano le sette di sera e io ero ancora che girovagavo per Manhattan, senza telefono e senza portafoglio.
Grande mossa lanciare la borsa a Thomas! Dio che stupida!
Non volevo tornare a casa, perché avrei dovuto incontrarlo e sinceramente, al solo pensiero venivo assalita dalla rabbia ma più di tutto dalla tristezza. E sicuramente sarei scoppiata a piangere e non volevo assolutamente dargli questa soddisfazione.
Mi sedetti su una delle panchine di Central Park e mi strofinai gli occhi, ancora rossi per le lacrime.
Sbuffai. Ero stanca di piangere, odiavo farlo! Era solo un inutile spreco di liquidi!
«Lo odio! Lo odio! Lo odio!» dissi, calpestando ripetutamente i piedi per terra.
«Povero prato, cosa ti ha fatto di male?» disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai di scatto, cadendo quasi dalla panchina.
«Scusa, non volevo spaventarti» disse il ragazzo, sorridendo dolcemente, mentre si grattava in guancia.
Era giovane e bello, il viso dai lineamenti delicati e perfetti, il ciuffo vaporoso, color bianco perla, gli occhi color cielo, molto chiari ma profondi come gli abissi dell'oceano.
Era slanciato, la camicia nera, lasciava intravedere le braccia muscolose e le curvature del petto.
«Non è possibile» mugolai prendendomi la testa tra le mani. «Ma qui a Manhattan siete tutti così?!» chiesi io indicandolo da testa a piedi.
Lui rise e si mise a sedere in parte a me.
La sua risata era giovanile e gioiosa, quasi fanciullesca.
«No! Comunque piacere sono Lion» disse porgendomi la mano.
Io la strinsi. «Piacere Elizabeth!»
«Allora, Elizabeth mi pare di capire che sei nuova di qui» disse lui sorridendo.
Io portai le ginocchia al petto e annuii.
«E come ti sembra?» chiese inclinando la testa di lato.
«Per il momento preferirei essere in qualsiasi posto che non sia qui...» dissi ridendo, mi voltai a guardarlo e vidi che si stava guardando le scarpe impacciato. «Scusa! Non volevo dire che in... Aaaaa!» dissi arruffandomi i capelli. «È tutta colpa del mio vicino di casa! È uno stronzetto arrogante! Per quello non vorrei essere qui, non per colpa tua» dissi agitando le mani.
Lui posò i suoi bellissimi occhi sui miei e sorrise. «Sei buffa»
«Oh bhe grazie» borbottai offesa.
«Non volevo offenderti! Prendilo come un complimento, oramai di ragazze come te c'è ne sono poche» disse sorridendomi dolcemente.
«Aspetta questa la voglio sentire! Che tipo di ragazza sarei?» dissi ridendo.
«Mmm... Sei spiritosa ma sei essere anche seria e presumo che non ti piacciono i posti affollati» disse guardandosi in torno. «E sei molto bella...» mi guardò negli occhio e io arrossii. «E arrossisci quando ti fanno un complimento, perché sei pessimista» disse ridendo.
«Sul fatto che non mi piacciono i luoghi affollati ti do ragione e anche per la serietà ma per tutto il resto no!» dissi ridendo.
«Vuoi dirmi che non ti ritieni spiritosa?!» disse sgranando gli occhi.
«Bhe ci sarà un motivo se nessuno è venuto a salutarmi prima che me ne andassi» dissi ridendo.
Non avere degli amici non mi aveva mai causato problemi, anzi potevo ritenermi fortunata: niente discussioni, ne litigi e per le feste non dovevo preoccuparmi, semplicemente perché non ci andavo. Mi piaceva non contare su nessuno, mi arrangiavo per tutto e per me era un vanto, perché quando cadevo mi rimettevo in piedi solo con la mia forza.
Non ero la persona che si relazionava con gli altri per formare legami o per i miei scopi, non mi relazionavo proprio e così facendo mi ero creata una corazza che non riusciva a oltrepassare. Poi incontrai Thomas e crollò tutto come un castello di sabbia. Per la prima volta ho provato cosa significasse avere un'amica.
Mi ha fatto provare emozioni di cui non conosco l'entità ma soprattutto ha riportato a galla la parte che odiavo di più di me, quelle sentimentale, il mio tallone d'Achille.
«Adesso hai me!» disse con entusiasmo. «Però voglio sapere come ti sono sembrati a primo impatto» disse con occhi furbi.
Mi presi il mento tra le dita, arricciai le labbra e corrugai la fronte mentre lui rideva.
«Sei gentile, evasivo... ma al punto giusto, sei una persona di compagnia, molto spiritosa. Dal tuo atteggiamento si capisce che sei sicuro di te ma qu anche volta sei timido... Ah sì, sei una persona molto apprensiva è un buon ascoltatore» dissi sorridendogli.
Lui spalancò la bocca e mi squadrò. «Sei forse tu Freud?»
Io scoppia a ridere e alzai sguardo al cielo per osservare le stelle.
«Per me le persone sono come un libro aperto» pensai a Thomas «eccetto per qualcuno.»
«Non è che leggi anche nella mente?» disse lui ridendo.
«No, però sarebbe divertente...» dissi io pensandoci su.
«Come fai a capire così bene le persone?» chiese lui sinceramente interessato.
«E da quando sono piccola che osservo i comportamenti e le tendenze della gente... È una cosa naturale per me, perché ogni loro piccolo gesto, anche il più insignificante, rispecchia la loro anima...» dissi chiudendo gli occhi e respirando profondamente, godendomi l'aria fresca che mi sferzava il viso.
«Ho ancora due cose da chiederti» disse lui.
«Chiedi pure» dissi io con un piccolo sorriso.
«La prima è: da dove vieni? Me lo sono proprio scordato di chiedertelo.»
«Minnesota... So che vuoi chiedermi anche perché sono venuta qui a Manhattan. L'ho fatto per mia madre e in parte anche per me, c'erano troppo ricordi...
Prossima domanda» dissi, sistemandomi una ciocca dietro l'orecchio.
«Sì... Bhe, ecco... Hai il ragazzo?» chiese lui timido.
Io aprii gli occhi e mi voltai verso di lui, mi stava fissando e le guance gli erano diventate rosse. Distolse lo sguardo e fissò le sue scarpe, mentre si torturava le mani.
«No» dissi con fare teatrale. «Ahimè non mi piace nessuno» risi e lui mi sorrise raggiante.
Avevo appena detto la palla più grande del secolo, c'era qualcuno che mi piaceva -cioè non ero sicura- ma continuavo a smentirlo e lo avrei continuato a farlo...
Guardai l'orologio e saltai in piedi. «Merda! Sono già le otto e mezzo!?» dissi incredula. «Oggi mi uccide!»
«Chi ti uccide?» chiese con aria preoccupata.
«Mia madre! Non l'ho neanche chiamata perché ho lanciato la borsa allo stronzo! Uff!» mi arruffai i capelli.
Lui mi porse il suo telefono con un sorriso dolce. «Usa il mio.»
Lo presi. «Grazie! Ti devo un favore!»
Digitai il mio numero di telefono e aspettai, dopo due squilli alzarono la cornetta:
«Pronto mamma?»
«DOVE SEI?!» urlò una voce maschile.
Era Thomas.
«Passami mia madre» dissi io acida.
«Non c'è! È dalla polizia! Dimmi dove sei!» sbraitò.
Lion mi guardava divertito, si capiva che sentiva tutto.
«No! E che cavolo ci fai a casa mia?!» sibilai.
«Non sono a casa tua! Ti devo ricordare che mi hai lanciato addosso una borsa?!»
«E io ti devo ricordare che sei un bastardo?!» sbottai.
«Dimmi dove sei, altrimenti...»
«Altrimenti cosa?! Non serve che mi vieni a prendere! Torno a casa da sola!»
«È pericoloso!» sibilò, aveva il fiatone, si capiva che stava correndo.
«Oh ora ti preoccupi per me?! Potevi pensarci prima!» sbraitai io.
«Se vuoi ti accompagno io a casa» disse Lion dolcemente.
Lo ringraziai.
«Chi era?!» disse lui fermandosi di colpo.
«Fatti tuoi?! Non mi sembra! Puoi pure tornare dalla tua amichetta!
Ciaoo!»
«Non azzardarti a...»
Non concluse la frase perché riattaccai.
Ridiedi il telefono al suo proprietario, che nel mentre si era alzato dalla panchina.
«Vedo che vi volete molto bene» disse Lion ridendo.
«Tremendamente bene! Se non fosse per la sua sorellina, sarebbe già morto» dissi io con un grande sorriso.
«Hai carattere, ragazza!» disse applaudendo.
«Bisogna averlo, se si vive in un mondo di squali» dissi incamminandomi verso l'uscita di Central Park.
                           ****
Mezz'ora dopo eravamo davanti all'entrata del grattacielo, dove vicino alla reception mi aspettava Thomas, arrabbiato nero.
Sbuffai.
«Forse è meglio che ci salutiamo qui, prevedo una lunga, lunghissima serata» dissi rivolgendomi a Lion.
«Ascolta... Per il favore che mi devi... Che ne dici di un'appuntamento» disse dondolandosi sui talloni, con le mai in tasca.
«Perché no? Il mio numero già c'è l'hai, quindi basta solo che mi chiami» dissi io sorridendogli.
Ci salutammo con un'abbraccio un po' impacciato.
Era strano per me legare così velocemente con una persona ma Lion era così gentile, si preoccupava di come stavi, era sempre sorridente, era tremendamente bello, un'angelo caduto ma soprattutto non era arrogante.
Ma non è Thomas disse quella bisbetica vocina.
Però dovevo dargli ragione, non era Thomas e questa cosa mi dava i nervi. Perché doveva piacermi quello stronzo di Thomas se da quando ero piccola sognavo un principe azzurro come Lion?
Perché l'oscurità ti attira ti più piccola ingenua disse ancora quella stramaledetta vocina.
Quanto l'avrei presa a sberle se avesse avuto un corpo tutto suo.
Probabilmente dovevo andare al più presto da uno strizza cervelli se continuavo a sentire le voci.
Thomas aveva uno sguardo gelido, sembrava volerlo congelare.
Aspettai che Lion se ne andasse, per poi dirigermi verso l'ascensore, senza degnare di uno sguardo Thomas.
«Non mi piace» disse lui con una smorfia.
«Neanche a me tu piaci, ma chissà perché, ti devo sopportare» dissi acida.
Entrammo entrambi in ascensore io in rigoroso silenzio, mentre Thomas borbottava cose incomprensibile.
Ero meno irritata del pomeriggio ma non gliela avrei fatta passare tanto liscia ne tantomeno lo avrei perdonato con facilità. O forse non l'avrei perdonato proprio.
«Ho chiamato tua madre per avvisarla che stavi tornando a casa, dovrebbe essere qui tra un'oretta» disse lui senza smetterla di fissarmi. Annuii.
Mi guardava come se fossi una leonessa in attesa del momento giusto per attaccare.
«Rivoglio la mia borsa» dissi senza preavviso facendolo sussultare.
Mi piaceva l'effetto che gli facevo quando ero arrabbiata, era divertente vederlo timoroso e che fossi io la colpa. Era una piccola rivincita.
Le porte dell'ascensore si aprirono e io uscii seguita da Thomas, che aprì la porta del suo appartamento.
«Entra» disse, facendomi spazio.
«Neanche per sogno, dammi la mia borsa e basta» dissi sbuffando.
«Dobbiamo parlare» disse impaziente.
«Io no ho niente da dirti» dissi con tono calmo, incrociando le braccia.
«Ma io ti devo delle spiegazioni!» sbottò lui, afferrandomi per un braccio e tirandomi all'interno dell'appartamento.
Chiuse la porta alle mie spalle mentre io cercavo di liberarmi dalla sua presa, invanamente.
Mi spinse al centro del soggiorno e chiuse la porta a chiave, corsi verso la porta cercando di fermarlo prima che la chiudesse ma arrivai troppo tardi.
«Aprì subito questa dannata porta!»
«Prima devo parlarti» disse, incrociando le braccia e appoggiandosi al muro.
«Dammi le chiavi! O giuro su dio che questa volta è quella buona in cui ti dò fuoco!» dissi dirigendomi in cucina.
«Vieni a prenderle» disse lui, sbottonandosi i pantaloni e mettendo le chiavi dentro le mutande.
Io lo guardai disgustata, poi mi misi a cercare un'accendino e la mia borsa.
«È tutto di sopra» disse riabbottonandosi i pantaloni, mentre io corsi verso le scale. «È inutile che sali, ho chiuso a chiave ogni singola stanza.»
Mi bloccai di colpo. «Che cosa vuoi da me?!» urlai.
«Che ti sieda e mi ascolti» disse, sedendosi sul tavolino e indicando il posto sul divano davanti a lei.
Rimasi ferma in mezzo la cucina, prendendomi la testa tra le mani e inizia a tormentarmi i capelli.
«Non voglio...» sussurrai.
«Ma...» lo bloccai prima che potesse continuare.
«Ho detto che non voglio! Non voglio sentire le tue scuse! Non ne hai motivo! L'hai baciata!? Bene, affari tuoi! Ma dopo non venirmi a dire che provi qualcosa per me! Non illudere la gente!» sbraitai mentre le lacrime iniziarono a offuscarmi la vista.
Non volevo piangere per colpa sua!
Non volevo dimostrarmi fragile e indifesa ai suoi occhi.
Ma soprattutto non volevo che capisse cosa provavo per lui, poiché non lo sapevo neanch'io.
Mi avvicinai alla porte e inizia a prenderla a calci continuando ad urlare di aprire.
«Maledizione Bethy! Smettila di fare la bambina! Cazzo! Te ne sei andata via così! E se ti fosse successo qualcosa?!» urlò lui avvicinandosi a me con la mano stretta in pugno, arrabbiato nero. Il suo sguardo era duro e freddo come quello di mio padre, come quello del ragazzo che mi aveva aggredito.
Trattenni il respiro mi portai le mani al viso, singhiozzando parole sconnesse.
Lui mi prese i polsi, facendomi lanciare un urlo, mi tolse le mani dal viso.
«Perché ti copri il viso?» chiese con più dolcezza.
«P-pensavo volessi p-pichiarmi...» balbettai, mentre le lacrime scendevano copiose.
I suoi occhi si incupirono. «Non lo farei mai Bethy... Ti prego non piangere...» disse, appoggiandomi la mano sulla guancia asciugandomi le lacrime.
Mi cinse la vita e mi strinse in un abbraccio, accarezzandomi i capelli.
«Non ho scuse per quello che ho fatto, quindi capirò se non mi perdonerai» sussurrò.
Feci un respiro profondo assaporando il suo profumo, immutabile.
«No, aspetta una celò» disse, asciugandomi le lacrime.
«E cioè?»
«Sono uno stronzo arrogante, sono fatto così!» disse ridendo.
Risi anch'io, non riuscivo a essere arrabbiata con lui, riusciva a trovare sempre un modo per farmi scordare perché ero arrabbiata.
Lo spinsi via e mi strofinai gli occhi. «Ora puoi aprire la porta e tornarmi la mia borsa?» chiesi, sbadigliando.
«Mi perdoni?» chiese lui facendo gli occhi dolci.
Io ventilai la mano senza rispondere. «Dammi la mia borsa e poi vedremo.»
Infilò la mano nei pantaloni e poi nelle mutande, tirò fuori le chiavi e me le porse.
Indietreggiai. «Che schifo! Io non le tocco!»
«Schizzinosa! Mi lavo!» disse, aprendo la porta.
Corse su per le scale e riapparse cinque minuti dopo con la mia borsa.
La presi e uscii in corridoio, aprii la porta del mio appartamento ma prima di richiudere la porta dissi:
«Non pensare che ti abbia perdonato!
Ah sì! Il libro te lo devi riprende, perché non lo voglio!»
Lui rise. «Lo riprenderò solo e solo se, riuscirai a trovare una frase -in quel libro- che ti si addica» disse sorridendo. «E io ne ho già in mente una.»
Il suo sorriso mi fece fare una capriola al cuore.
Chiusi la porta sbattendo e mi ritrovai a sorridere come un ebete per niente. Ero proprio stupida, perché l'avevo già perdonato e lo avrei continuato a fare...
«Si sempre gentile, forte e coraggiosa, mia piccola guerriera» disse una voce lontana e soave, nella mia mente.

Kimberly: Il Sangue RealeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora