Capitolo 10

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LA POLITICA
Perchè tendiamo a dissociarci dalla politica? Esiste una concatenazione di ragioni che ci spingono a dispregiarla? Oppure si tratta di una semplice riluttanza generalizzata del potere costituito? Un'analisi etimologica del percorso storico compiuto dalla politica nel corso dei secoli potrebbe contribuire ad affievolire il torpore comune, restituendo così una maggior responsabilità etica nei confronti della "res publica". I presupposti concettuali elaborati da Aristotele contemplavano la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini potessero partecipare, finalizzata ad una migliore gestione della "polis". Sulla base di quest'archetipo trae origine la funzione endemica della politica stessa: ovvero plasmare l'identità di una comunità (che sia a livello locale o nazionale) secondo un criterio logico e amministrativo. La politica ha condotto la cooperazione sociale a livelli qualitativi molto elevati, sollecitando il passaggio dallo stato di natura ad una condizione di maggior stabilità collettiva. Forte di tale vantaggio, la notevole produttività intellettuale e materiale che ne consegue ha comportato la formazione di un bacino culturale da cui dipendono sia la nostra "forma mentis" che il nostro "mos maiorum". Compatibilmente con la propria appartenenza ad un determinato gruppo sociale si sviluppa un regime politico che ne mutua i connotati più rilevanti, restituendo così un quadro analitico della realtà in questione. La nomenclatura politica venne stilata per la prima volta da Platone, il quale codificò 3 diverse categorie governative e le loro rispettive deviazioni: la monarchia, intesa come il governo di uno solo; l'arsitocrazia, ovvero il governo di pochi esperti; e la democrazia, ossia il governo dei più, considerata come la peggiore tra le forme di governo perchè sottomessa ai capricci della moltitudine. Le corrispondenti degenerazioni si suddividono in: tirannide, ovvero il governo di un tiranno, le cui mira egemoniche propendono verso un esclusivo tornaconto personale, eludendo in questa maniera l'utilità effettiva del popolo; oligarchia, corrispondente al governo dei malvagi; e democrazia corrotta, ritenuta la più vivibile tra le forme di governo deviate. Se è vero, come enunciato dallo stesso Aristotele, che il fine ultimo della "polis" coincide con l'attuazione del bene comune, siamo davvero sicuri che questa forma di democrazia diretta sia l'unico modo per ottenerlo? Sia ben chiaro: la mia non vuole essere in alcun modo un'assunzione dettata da rancori o rivalse di nessun tipo, nè tantomeno si propone di minare le fondamenta della democrazia stessa, i cui effetti sono visibili sotto gli occhi di tutti. Tale perplessità verte, piuttosto, sulla necessità di riformare la partecipazione sociale alla sfera politica, con un occhio di riguardo alle competenze specifiche dei singoli cittadini nel settore. Il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau assegnò alla "volontà generale", intesa come corpo morale e collettivo, il compito di definire le regole di quella "educazione pubblica" fondamentale nel modellare l'individualità di ciascuna persona in relazione al "corpus" dello Stato, e di condurre quest'ultimo verso la realizzazione di un bene comune pensato come sintesi di libertà e uguaglianza. Friedrich Hegel, invece, pose l'attenzione sulla centralità dello Stato, concepito come il luogo del superamento degli interessi individuali. Esso venne ritenuto dal filosofo tedesco come il solo autentico soggetto della storia, nella quale si sostanzia lo "spirito di popolo". Il bene comune, perciò, si identifica con il bene dello Stato. In fin dei conti il conseguimento dell'obiettivo sopracitato deve prescindere dalle pretese di natura egocentrica, sublimando al contrario le iniziative di carattere solidale come metodo di rinnovamento della politica.

Pensieri di un viaggio di ritornoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora