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Curioso come tutte le anime fragili amino il mare. 

La pioggia. Il cielo e le stelle. 

Come tutte fra di loro si chiamino "anime", consapevoli di quel che sono, e così distanti dal loro corpo. 

Sempre con la testa fra le nuvole, fra i ricordi, intente a studiare con occhi assetati il mondo, gli occhi degli altri, desiderose di concentrarsi sulla bellezza altrui, sulle meraviglie della natura, della notte, e il tutto per sfuggire dalla propria solitudine, per paura di non essere all'altezza, perché ci sentiamo deboli, mai abbastanza, irrimediabilmente incomprese. 

E piangiamo, o sigilliamo tutto dietro le palpebre, trasformandoci in teche di emozioni, di farfalle incapaci di volare. E trascriviamo ogni cosa, ogni parola e ogni virgola, per riuscire a respirare, per convincerci che non è tutta una nostra illusione. 

Qualcosa si agita davvero, dentro di noi.

Eppure, anche il mare è solo, anche se tutti lo ammirano e tutti lo abbracciano, "tutto accogli e scruti e respingi da te come il mare", e le stelle esplodono e il cielo piange. 

Anche l'amore sfiora l'odio, e s'innalza come un'onda per poi schiantarsi e sparire, e la fiducia crolla e la terra galleggia nel caos. 

Perché noi dovremmo essere diverse? Siamo belle, così belle che le nostre farfalle sopravvivono ancora, solamente per noi. Perché siamo forti, forti come la luna che non ha paura di vincere il buio, e come il buio, che accoglie le stelle con tutte le loro esplosioni. Perché siamo come gocce di pioggia, bagniamo i fiori e ci tuffiamo, in tutto ciò che esiste, e lasciamo desideri e paure, e gioie e amori nell'aria, e tutto ciò che guardiamo, immortaliamo in uno scatto, in una tela, o in foglio mappato d'inchiostro, non è nient'altro che un serbatoio di dolci e vive emozioni.Curioso come noi anime fragili, che di fragile abbiamo solo la pelle, ci sentiamo così lontane da ogni cosa, quando ogni cosa inesorabilmente, s'impiglia nei nostri occhi e scivola giù, facendo traboccare le lacrime, indelebile segno,di un cuore che vive.


Le scrivo ogni tanto, queste cose strane. Le scrivevo. Capitavano quando meno me l'aspettavo, mentre fissavo il nulla, o leggevo un libro. Spesso quando pioveva, quando ero in treno, persino a lezione. Allora afferravo una penna, una matita, un pezzo di carta qualsiasi, anche uno scontrino, e scrivevo. Poi, il senso di meraviglia non stava tanto nel contenuto, ma nella sensazione di pienezza che provavo dopo aver terminato. Pienezza, completezza, correttezza. Erano gli unici momenti di cui non mi pentivo mai. Perché, sì, devo ammetterlo, almeno ora, voglio confessare al mondo che io, non ho mai fatto la cosa giusta eppure non ho sbagliato mai. Se fossi stata una rosa avrei potuto starmene tutto il giorno ferma a sbocciare, vivere per me stessa, una bellezza fine a sé. Invece no. Sono nata e mi hanno pure spinto a fare delle scelte cruciali in mezzo alle impalcature del mondo. Il mondo era perfetto, diamine, era perfetto! Ci costruiscono poi città, ci piantano ferro, tagliano gli alberi, spolpano petrolio, e tu sei costretto a camminarci, sguazzarci in mezzo, a respirare smog e a mangiare marciume confezionato. Forse è per questo che non sono mai stata una persona responsabile, ho sempre preso tutto con una certa leggerezza, seguendo gli impulsi del momento. Rispondevo ad annunci di lavoro senza nemmeno valutarli, spesso pentendomene, sbagliavo a compilare curriculum, sbagliavo ad accettare un'uscita in compagnia, sbagliavo a rifiutarla.

Comincia tutto così: cinque anni di elementari. Li subisci e non puoi proprio farci niente. Ancora non mi ricordo cos'ho imparato.

Poi cominciano le medie. A questi ragazzini con il cellulare in mano dicono già che devono fare nella vita quando non sanno nemmeno come se la passano i ragazzini dall'altra parte del mondo, negli angoli bui di città dove non avrebbero mai il coraggio di mettere il piede. E io, ahimè, che ci potevo fare, vivevo con la nonna, Anna Maria, nel suo negozietto di abbigliamento all'incrocio del paese, dove passavano tutti, si fermavano al semaforo rosso e poi andavano via. Per me lei era forte e bella. Si gestiva tutto da sola, si puliva l'appartamento, due piani sopra il negozio, e non aveva amiche. Passavano qualche volta.

Ecco, io non la sapevo mica la tabellina del sei, però sapevo disegnare. Disegnavo abiti e copiavo oggetti, li mostravo in giro, assorbivo i complimenti degli adulti, e quindi che ho fatto, mi sono iscritta ad un istituto tecnico di moda. Allora, però, vivevo con gli zii. Capite, la mia vita era cambiata. Nonna Anna era forte ma se l'era portata via il cancro lo stesso, e io mi sono tenuta il suo vizio per il fumo, mi sono chiusa a riccio, volevo respingere il mondo, e ho fatto una corsa di cinque anni trattenendo il fiato per poi sputare fuori uno stupido 81. Son due numeri. 8 e 1. Sono solo due numeri. La mia pelle era vecchia di cinque anni e a me non erano rimasti che due numeri. Ora, nel mio corpo vecchio, ho la certezza che la scuola non mi ha mai insegnato niente, perché semplicemente io non volevo imparare. Ma che ci volete fare, sono cose che capisci dopo, quando magari hai trovato un lavoretto e ti mantieni, pensi "ehi, ce l'ho fatta anche senza studiare!", ma poi, un giorno che sei stanco e annoiato, senti nel petto l'eco di una mancanza. La tua testa è troppo vuota, sei troppo pieno di noia, vuoto di passione. Qualcosa manca. Che sia cultura, che sia consapevolezza del mondo. Qualcosa manca. E la consapevolezza non è una pienezza, qualcosa che comprendi e ti riempie di soddisfazione. No, no! Consapevolezza è vuoto. Ti spalanca la mente, ti spalanca il cuore, e se tu non hai amore da metterci dentro, se non hai la curiosità di sapere, di scoprire, hai solo paura. Un giorno semplicemente mi sono svegliata, che ero in mezzo alla gente e stavo facendo chissà che cosa di poca importanza. Un giorno mi sono svegliata, ho ricordato di essere viva, e ho avuto paura. Adesso sì che mi sento vecchia, adesso proprio come allora.

Senza nomeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora