Lettera a E.

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Cara E.,

da qualche anno mi occupo di dare un senso alla mia vita e, perdonami, ammetto che non ti ho pensata più. L'azione del tempo agisce così silenziosamente che è difficile accorgersi di ciò che passa e ciò che resta.

Vent'anni. Sono tanti. Sono gli anni in cui dovrei aver affondato le radici per i frutti migliori della mia vita. Potrei aver imparato tre lingue e percorso un bel pezzetto di mondo e ora avrei tante cose da raccontarti. In fondo, da quando te ne sei andata hanno inventato di quelle cose che, giuro!, non ci crederesti. Tu che amavi le cose semplici, tu che amavi le rose gialle. Vorrei raccontarti qualcosa di meraviglioso, ma la verità è che non è successo nulla di importante, non c'è nulla che mi sia rimasto tra le dita. Ma io sono giovane, non ci ho capito molto della vita, e ho l'impressione che le persone attorno a me cerchino di insegnarmi a farmene una ragione. Stiamo diventando belve con le unghie limate e l'istinto per i soldi. Quando ti rendi conto che piuttosto di vivere, preferisci vivere -stare, esistere- al sicuro, ti senti fiacca, il tuo corpo comincia a pesare sul serio e il sole non è più niente di così speciale. Quando ti rendi conto di queste cose, ti senti vecchia. Vecchia dentro. Vecchia e vuota. Sapessi quanto mi vergogno a parlare e pensare così, oh E...

Non ho mai patito la fame e non ho mai ascoltato gli scoppi della guerra sopra il mio tetto, appena prima di addormentarmi.  Non so cosa voglia dire morire di freddo e sentirsi la schiena spezzarsi di stenti. So leggere e scrivere, so qual è il sapore della cioccolata e del caffè, so cosa vuol dire assaporare il tepore del sole sulla pelle, perché poi posso godere del tocco dell'acqua fresca del mio rubinetto, della mia bottiglietta di plastica o della mia doccia.  Le uniche grida che ricordo sono le tue, quelle della nonna e le porte sbattute di mio padre, ma il tempo si è portato via anche questo. Forse è da quando sono piccola che ho messo il silenziatore e non lo sento più tanto il mondo. Nel frattempo, comunque, le cose sono andate bene. Non mi sono mai pulita il sangue di una ferita da taglio, da arma da fuoco, di un'infezione per mancanza di igiene. C'è l'ospedale, c'è il dottore e la farmacia, ho la macchina, e in caso passa il treno ogni venti minuti o l'autobus ogni ora. Sono adagiata nella comodità, sono seduta su un letto che conserva il profumo del mio shampoo e del detersivo della zia. Potrei stare immobile per tutta la vita. C'è persino una bicicletta e le scarpe per camminare. Ho così tanti vestiti nell'armadio che un bambino del Terzo Mondo non saprebbe nemmeno riconoscerne i colori, e così tante penne e matite che credo di non averne mai finita una. Forse una delle mie matite mangiucchiate verrà trovata da qualcuno nelle discariche, e la userà per provare a disegnare per la prima volta, come quei bambini delle favelas brasiliane. Loro non hanno coperte che tengono al caldo, un condizionatore per l'estate e tanti libri. Un computer, la televisione, il cellulare e l'iPod per ascoltare musica, e di fuori in giardino un tavolo fantastico con un buco in mezzo per infilarci l'ombrellone. Non penso sappiano cosa sia un giardino. Io, invece, ho la possibilità di scegliere ogni giorno della mia vita cosa fare. Cosa mangiare, cosa indossare. Eppure, la scelta più difficile di tutte risulta ancora quella di essere felice. Pensaci un po': le cose possono sempre andare male. Ogni secondo della tua vita c'è la completa probabilità che qualcosa possa andare storto; potresti inciampare tra un'ora o morire domani, potresti mettere il piede fuori casa e beccarti una tegola in testa. Potresti rovinare il lavoro di una vita o ferire qualcuno a cui tieni molto, potresti far cadere un bicchiere o bruciare la cena. Qualcuno potrebbe commettere una disattenzione alla guida, questione neanche di un secondo, ma di una frazione di secondo e tu non ci sei più, spariscono le preoccupazioni e restano solo le cose importanti a cui tu non ti sei mai concesso di pensare. Allo stesso tempo, però, ci sono le stesse identiche probabilità che le cose vadano bene, quindi perché a questo non pensiamo mai? Non lo sai di essere incredibilmente fortunato anche ora, mentre respiri. Dedichiamo tutta la nostra attenzione alle preoccupazioni, ne parliamo, le pompiamo, ci concentriamo sulla sfortuna, sullo stress, sul rancore, e poi ancora ci chiediamo perché non siamo felici. Io me lo chiedo ogni giorno, anche ora. Perché non dedico questo momento, questo in cui sono viva e in salute, per sentirmi grata e felice? Temo che la felicità esista, ma sia la nostra Atlantide, il giardino dimenticato dietro casa, quello inglobato dalle erbacce e di cui nessuno si ricordava dell'esistenza. Conservo uno spillo nel cuore che non riesco a levarmi, c'è una pesantezza nella mente e nell'anima che mi rende povera ogni volta che vedo un uomo seduto sul bordo della strada. Ogni volta che sento di uomini stipati in un effimero barcone tra le fauci dell'oceano immortale. Come faccio a dormire se qualcuno, nel mio stesso mondo, immagina la riva del mare chiedendosi se quella sabbia sarà il suo nuovo inizio o la culla dei corpi dei suoi figli? Come faccio a dormire se c'è una donna con lo zigomo violaceo, nel mio stesso mondo, che ora trema di paura come tremavi tu? Come faccio a guardare un telegiornale sapendo che dentro quel televisore, in realtà, non c'è niente, ma che tutto invece esiste, ogni cosa, nel mio stesso mondo, nel mio stesso tempo?

L'unica cosa che mi fa stare bene è sapere che là fuori esiste qualcosa che non cambia mai. Il cielo, i fiori, il mare. Gli alberi non si muovono, le stagioni continuano impassibili il loro ciclo, mutano il palcoscenico. E noi stiamo qui in mezzo a recitare. Poi arriva un soffio di vento, un'onda si alza più delle altre, tutto crolla. Per quanti soldi abbiano, per quanta cultura possa fargli compagnia e quanti amici possano invitare a cena, le persone restano sempre sole nella loro testa, non smetterò mai di ripeterlo. Siamo tutti soli. Ogni valore è una fantasia consolatrice.

Una sera mi sono sentita molto sola e ho voluto provare a ricordare il suono della tua voce. Non ci sono riuscita, quindi ho deciso di colmare il mio piccolo vuoto con queste parole, in modo tale che, scrivendo (non mi attendo di certo una risposta) fingo di tornare bambina e aspetto che il tempo torni a prendermi come un padre imbronciato che non ho mai avuto. Continuo a pensare ma i ricordi non riescono più a farmi del male. Non i miei, almeno.

Oggi ho visto un uomo. Aveva pochi capelli sporchi, sceglieva mugugnando e ciondolando quale angolo della strada fosse il migliore. Ha buttato per terra il suo cappello rovesciato, si è grattato la gamba affondando le unghie nere sulla stoffa dei pantaloni untuosi e si è seduto. In quel momento, Venezia non mi è più sembrata una bella città. Quando sono tornata, due o tre ore dopo, lui era ancora lì a guardare il vuoto. Non era triste, non sembrava affamato e nemmeno stanco. Le persone gli passavano davanti sgambettando velocemente, ignoravano anche la donna, poco più avanti, che zoppicava con un piede fasciato chiedendo monetine. Lui, invece, non chiedeva niente. Lui non esisteva. Era morto. Improvvisamente non mi importava più dell'arte, della religione, della cultura, del fatto che avessi l'occasione di studiare per crearmi un futuro migliore e che mi trovassi in una delle più belle città del mondo. Tutto, la mia intera esistenza, l'intero mondo si è ridotto al grido silenzioso di quella coscienza annientata, ha saturato ogni spazio e ogni tempo, disintegrando ogni senso e ogni significato. Se davvero il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora, quell'uomo non aveva più un'identità. Era morto. Non c'era una passione, non c'era più uno scopo, un briciolo d'amore nei confronti di qualcuno. Quella persona era morta. Quindi, ti prego, tu sai dirmi cos'è che ci tiene in vita? Di certo non l'amore. Cos'è che conta davvero? Ma la crudeltà, la vera catastrofe, è che il tempo mi farà dimenticare, così come non piango più per te. Tutto diventa accettabile. Noi ci adeguiamo. Ho alzato lo sguardo, il sole ha illuminato la via e i negozi, la fiumana di turisti mi hanno sospinta in avanti e io sono tornata a casa, con lo sguardo fisso da qualche parte. 

Mi dispiace, non volevo scriverti cose così tristi, non fraintendere. Io amo la vita, amo profondamente ogni respiro di cui sono capace, perché il vero miracolo è che non dipende nemmeno da me, questo respiro, dalla mia coscienza, dalla mia volontà, ma da quel mistero meraviglioso che mi soffiò il primo battito di vita nel grembo. Che posso fare, se non fidarmi ciecamente di quel qualcosa che sta lassù, ovunque nelle cose e nelle non-cose. Pensa se un giorno scoprissimo che quel qualcuno eravamo proprio noi. Immagina, che figuraccia! Piccole anime in fila che si scelgono una situazione da affrontare per evolvere e un corpo in cui vivere, completamente fiduciose, convinte  di potercela fare e di imparare tutto ciò che ancora non erano riuscite a imparare. Deluderei solamente me stessa, e non è un bel pensiero con cui convivere. Ho letto da qualche parte che l'universo ha più fantasia di noi, perciò, mia cara E., spero ancora di essere sorpresa dall'inimmaginabile. C'è ancora speranza.

Un abbraccio,

tua V.

Senza nomeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora