Ero vecchia anche perché io, in mezzo alle persone, non ci riuscivo proprio a stare. Mettetemi in una stanza con una quindicina di loro, ne basterebbero tre, e dopo neanche un'ora sarò costretta a correre di fuori.
Lo ammetto, sono vergognosamente egocentrica e indicibilmente insicura.
Comincio a sentirmi tutti gli sguardi addosso, come se davvero qualcuno potesse notare la mia esistenza tanto quanto io noto la sua. Mi torturo le mani, tengo lo sguardo fisso davanti a me, mi sistemo un po' meglio la maglietta con l'unico effetto di sentirmela ancora più stretta, mi passo le dita fra i capelli.
E intanto, mentalmente ripeto: chi se ne importa. Che poi è esattamente così, non me ne frega niente di quello che pensano. Lo giuro. Ma nel frattempo divento nervosa, mi agito, controllo ogni mio minimo movimento.
Credo anche che succeda qualcos'altro, in quella stanza, in tutte le stanze e in tutti i posti, ma non ne sono sicura, poiché ci penso su talmente tanto che potrebbe essere benissimo solo un'impressione. Un'impressione molto assillante.
Sento tutto. O quasi. Quel quasi che di per sé basta a farmi impazzire.
È come se le persone rilasciassero emozioni nell'aria, assieme al loro respiro.
E io assorbo emozioni come una spugna assorbe l'acqua.
Colgo le risate, gli sguardi annoiati, le smorfie, le parole cattive, i commenti maliziosi, gli occhi assenti. Vengo solleticata dai dolori nascosti, quel fiato dolce amaro che sfugge alle persone intente a trattenere troppo i loro problemi, nascondendoli dietro ai sorrisi. Le mie orecchie vengono bombardate da individui che in dieci minuti riescono a parlare loro da soli tanto anche per dieci pettegole in chiesa. Ed il livello di conversazione, compete esattamente con quello delle pettegole in chiesa.
Non so cosa mi succedeva, davvero, non lo so proprio, ma a fine giornata mi guardavo allo specchio e fissavo quella stanchezza sconosciuta che mi pesava sotto agli occhi. Due curve scure. A fine giornata, tante volte, ero stanca. Stanca senza aver fatto nulla, a parte camminare in mezzo alla gente.
Allora dovevo assolutamente scrivere, scrivere o leggere. Dovevo entrare in quel mondo dove le persone parlano senza fare rumore, dove le emozioni ti entrano dentro senza rischiare di ucciderti.Ragazzi miei, ci vuole fisico per reggere qualcosa del genere, ed io facevo parte di quelle rara categoria di persone che a un certo punto della loro vita, dopo tanti sforzi, quando si trova a suo agio in nessun posto, con nessun lavoro, si chiede: e se io fossi una di quelle che non ce la fa? Ogni volta che me lo chiedevo, l'universo mi mandava una risposta. Sempre. O qualcuno che te la dà così, senza nemmeno saperlo, oppure sotto forma di pensiero, totalmente estraneo a tutti gli altri, che improvvisamente si materializza in mezzo alla fronte e se ne sta lì. Raramente li prendiamo sul serio questi pensieri, perché essendo solamente nostri, non ci fidiamo. Non sono testati, non ti danno nessuna sicurezza: un giorno pensai che se volevo vincere, nella vita, dovevo puntare a quel fattore umano che mi rendeva diversa da tutti gli altri. Ora rido perché so che a differenziarci c'è solo un corpo di carne e ossa, qualche millennio infinito di esperienza in chissà quali pianeti, in chissà quali galassie, ma lascia stare, questa è un'altra storia. Stupida pesante densa dualità.
Allora, dicevo, pensavo che era inutile sprecare il tempo a competere per qualcosa di mediocre in cui tutti, con un po' di allenamento (un allenamento nel quale io non riuscivo assolutamente a cimentarmi), potevano riuscire. Dovevo puntare a quel qualcosa che nessun altro sapeva fare, ed ero certa che tutti sapessero fare qualcosa in cui gli altri non riuscivano. Nasci per fare questo. Solo questo. Tutto il resto è spreco, non ha importanza. Dal canto mio, ho provato a crederci, ma l'unica cosa in cui ero brava era togliere l'importanza alle cose, a ridimensionarle fino a renderle delle nullità. Tutto questo, però, l'ho capito solo dopo, grazie a una persona speciale. Speciale perché lui non non vedeva quello che vediamo noi, no signore. Lui guardava oltre il cielo, suonava qualcosa che bisbigliava dentro di lui, e poi, anche se lui in testa aveva il caos, ti accordava l'anima. L'ho conosciuto durante i cinque anni peggiori della mia vita, quelli delle superiori, in cui non ascoltavo nessuno, a casa mi fissavo a lungo i polsi e poi mi chiedevo se c'era davvero qualcosa per cui ne valeva la pena.
Un giorno è entrato nella mia vita e mi ha detto:
"Esiste un segreto che se lo conosci, puoi fare tutto quello che vuoi".
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Senza nome
General FictionIl diario di una senza nome. Non troverete né data né ora alcuna. Ricorda: sii grato di poter osservare il cielo, perché al cielo non è concesso di osservar se stesso. Tutti i diritti riservati, Elany Blackwood © 2016