Vittorie.

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Mi abbottonai i jeans neri e mi passai distrattamente una mano tra i capelli, dondo loro un minimo senso di ordine, stavano diventando troppo lunghi rispetto a quanto fossi abituata. In un paio di minuti avrei raggiunto Arianna, Gab e Lele che mi aspettavano nella stanza dei ragazzi.
Quella mattina io e Lele avevamo passato mezz'ora stesi a letto ad avere una seria conversazione su quanto la nostra assenza in pizzeria la sera di san Valentino potesse ferire la cameriera e, dopo aver riso come bambini, avevamo deciso di passare la domenica sera con gli altri ragazzi in camera di Michele.
Avevamo provato a lasciare l'hotel per tutta la giornata di sabato e la maggior parte della domenica, ma allontanarci dal letto, anche solo per fare una passeggiata in centro, ci era sembrata un'idea improbabile. Non che in hotel avessimo cose più interessanti da fare, avevamo passato quasi trenta ore a letto, chiacchierando del nulla e stressando Gab, perché, nonostante avessimo recentemente scoperto di non riuscire a passare più di cinque minuti senza che i nostri corpi si cercassero, questo non ci impediva di battibeccare di continuo.
Verso le sei di domenica pomeriggio, Gabriele ci aveva ordinato di lavarci e vestirci -"Nun c'a facc cchiù, v'ata aizza'!" - e, nonostante Lele avesse provato a convincermi a lavarmi da loro, mi ero decisa a tornare in camera per almeno un'ora. Sapevo già che, se non l'avessi fatto, il giorno successivo, in cui saremmo stati a lezione per la maggior parte della giornata, sarebbe stato un inferno. Dopo la registrazione di venerdì, in cui la mia squadra aveva perso e entrambi eravamo finiti in sfida, io e Lele avevamo vissuto in simbiosi, lasciando la sua stanza solo per scendere al ristorante a pranzo, avevamo persino deciso di ordinare cinese a domicilio sabato sera, per la disperazione di Gabriele.
Mi spruzzai con un po' di profumo, andai a bussare alla stanza dei ragazzi e insieme raggiungemmo gli altri.
Fummo accolti da un fischio di Alessio. "Assafà!"
"Elo, sei viva? Pensavo te fossi persa 'n camera di Lele!"
Spinsi Michele per il braccio, ridendo, e mi andai a sedere sulle gambe di Lele, che aveva occupato la poltroncina accanto alla scrivania. Subito un suo braccio, quasi inconsciamente, mi circondò la vita e io mi appoggiai più comodamente al suo petto.
Era raro che ci riunissimo tutti in una stanza, col passare delle settimane si erano creati dei piccoli gruppi e tra i parenti e gli amici che spesso venivano a trovarci, era difficile metterci d'accordo.
"La sera di san Valentino stiamo tutti in hotel, che vergogna." Andreas ci osservava insoddisfatto.
Scoppiai a ridere per la sua aria triste. "Per sottolineare che siamo degli sfigati."
"Parli te che hai passato due giorni chiusa in camera a fare chissà cosa, con Gabriele che provava a dormi' nell'altro letto."
"Oh, ma che cos?!" L'urlo di Gabriele fece scoppiare una risata e io dovetti reggermi alle spalle di Lele per non cadere dalla sedia. "Quann c stong ij, nun succer nient!"
La serata passò tutta così, tra le risate generali e un clima leggero.
Mettere insieme una quindicina di teste, soprattutto teste artistiche, era difficile e spesso e volentieri si creavano litigi anche piuttosto seri, ma ogni tanto capitavano quelle sere in cui si aveva solo voglia di stare insieme e ridere, come se l'assurda esperienza che stavamo vivendo fosse solo una grande gita scolastica.

"Maronn, io alle lezioni con la Titova non ci vado più."
Gabriele si accasciò sul divano accanto a me, appoggiando la testa sulla mia spalla.
"Che è successo?"
Sospirò pesantemente e dallo specchio davanti a noi lo osservai metter su un broncio triste. "Facc sul figur 'e merd. Abbracciami un po', ja, amo'."
Intenerita da questo suo momento di sconforto gli passai un braccio sulle spalle e con la mano destra gli accarezzai un braccio.
Non so se fosse per la differenza d'età o per la sua innata dolcezza, ma ero arrivata davvero a considerare Gabriele come un fratellino, da coccolare, proteggere e rimproverare. E lui non era da meno. Quando io e Lele gli avevamo raccontato quello che stava succedendo tra di noi, Gabriele mi aveva abbracciato tra urla di gioia, ma poi mi aveva presa da parte per chiedermi come stessi, cosa stessi provando; non avevo dubbi che avesse fatto la stessa cosa con Lele. Era una brava persona, una di quelle che ti viene da definire a prescindere innocenti e indubbiamente era una delle cose belle che questa scuola mi aveva permesso di conoscere.
"Maro', ma si semp tu!" Gabriele mi afferrò la mano destra e mi osservò scocciato.
"Che ho fatto mo'?"
"Stamattina un altro poco non perdevamo il pullman, ché Lele si stava sciumunendo a cercare l'anello, siamo andati pure in camera di Andreas a cercarlo e te l'eri preso tu?"
Mi sentii arrossire e incassai la testa tra le spalle, con un sorrisetto colpevole. "Stavate dormendo quando l'ho preso..."
"E te lo dovevi prendere per forza, ovviamente."
Quella mattina, quando mi ero forzata a staccarmi dal corpo di Lele, tra le sue proteste assonnate, il pensiero di andare via da quella stanza e dover affrontare la giornata senza di lui mi era sembrato assurdo. Così mi era sembrata un'ottima idea prendere uno dei suoi anelli -ovviamente non quelli dei suoi nonni-, in modo da portarlo con me. Più di una volta a lezione mi ero portata la mano vicino al viso, perché mi ero convinta che quel piccolo oggetto profumasse di Lele.
Persa in quei pensieri, avevo di nuovo avvicinato l'anello al mio naso.
"Amo', comunque io così sfiaccuta non ti avevo mai visto, non lo so se è una cosa buona o no, va a finire che ti rincoglionisci!"
Il tono seriamente preoccupato di Gabriele mi fece scoppiare a ridere e iniziai a lasciargli dei piccoli pugni sulla pancia. "Oh, ma 'sfiaccuta' a chi?! Ma guarda questo!"
Nemmeno il tempo di finire la frase, lasciai cadere i pugni. Lele era appena entrato in sala relax e dalla sua espressione si percepiva tutto fuorché l'euforia che stavo provando io in quel momento. "Scusa, Gabri, vado un attimo..."
"Vai, vai, chi ti ferma."
Gli diedi uno schiaffetto dietro la nuca e mi diressi saltellando verso Lele, che si era lasciato cadere su una sedia, dopo aver preso il suo pranzo.
"Che succede qua?" Mi sedetti accanto a lui. Avevo notato che quando era di cattivo umore non sopportava la vicinanza di nessuno, ancora non avevo capito se questo si applicasse anche a me, ma dopo aver passato un'intera mattinata lontani, non me ne importava più di tanto.
Lele mi lanciò un piccolo sorriso spento, ma lo presi come un lascia passare."Niente, sono stato due ore a provare lo stesso pezzo, non riesco a concentrarmi, ho la testa proprio da un'altra parte."
"Dove?"
Scrollò le spalle, continuando a mangiare. "Non lo so, forse sto iniziando a sentire la tensione della sfida. E poi ho perso l'anello dorato, mi fa strano non averlo, l'ho cercato dappertutto, ma... che hai?"
Mi ero fatta piccola piccola sulla sedia, portandomi la ginocchia al petto. Allungai la mano destra sul tavolo, facendogli vedere l'anello.
"Ce l'avevi tu?! Ma come..."
"Dài, non te lo riprendere, profuma di te." Lo guardai con gli occhi grandi, con l'espressione dolce.
Subito la sua fronte si distese e il suo viso si aprì in un sorriso. "Ma certo che puoi tenerlo."
"Sei sicuro? Se vuoi, lo tolgo..." La mia voce si era fatta sottile e incerta.
"Amo', ma figurati! Non sapevo te lo fossi preso, ma voglio che tu lo tenga, davvero."
"Ah!" Scattai in piedi ridendo come una matta."Lo sapevo, sei troppo facile da raggirare, bello!"
Lele mi osservò perplesso, prima scuotere lentamente il capo, divertito. "Ti piace sfottermi, eh?"
"Avoja! Sei una preda facile!"
Lo presi in giro ancora un po' per la sua ingenuità, prima di abbracciarlo e appoggiare il mio viso nell'incavo del suo collo, rimanendo così a dargli piccoli, impercettibili baci per qualche minuto.
Si stava lentamente abituando ai miei inarrestabili momenti di euforia e il fatto che in qualche modo riuscissero a portare su di morale anche lui, me li faceva sembrare un po' meno assurdi.
In fondo lo sapevo che Lele mi lasciava vincere quasi sempre, nonostante lui affermasse il contrario, gli piaceva vedere i miei momenti di trionfante entusiasmo, il modo in cui, come una bambina, saltellavo felice di ciò che avevo ottenuto, anche prendendolo in giro, prima che gli dessi il mio personale premio di consolazione.

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