Le strade erano deserte. Vedevo in lontananza il sole che spingeva per farsi strada nell' oscurità.
Un arancione pallido cominciava a screziare il nero della notte.Camminavo velocemente per i vicoli stringendomi nel mio lungo impermeabile grigio. Il freddo mi congelava la punta del naso e le dita delle mani, provai a metterle in tasca e sentii che andava un po' meglio ma avevo paura che se non avessi trovato un luogo caldo mi si sarebbero staccate dato che già erano diventate bluastre. Svoltai due volte a destra e poi una a sinistra,mancava poco alla mia destinazione.
Nel frattempo nel cielo erano comparse delle venature rosa-violacee.
Finalmente vidi a più o meno duecento metri l'insegna traballante e mezza scassata di quello che una volta doveva essere un venditore di frozen yogurt o milkshake.
Il nome del posto era abbastanza penoso ma a Lex piaceva. Happy Milky, non era il massimo per un piccolo bar situato in una città abbandonata ma nessuno ci aveva fatto molto caso. Era l'ultimo dei miei problemi il nome stupido di un bar.
Entrai e percepii subito il calore sulla pelle, arrivai al bancone e mi sedetti su uno sgabello alto di bambù mezzo mangiato dai tarli che prima o poi avrebbe rotto l'osso del collo a qualcuno.
-Ciao Zahira- mi salutò Lex con quel suo solito tono di voce acuto.
Ricambiai il saluto e le chiesi una cioccolata calda. Il cioccolato mi scaldò e dopo poco le mie dita ricominciarono a prendere un colorito abbastanza normale.Due uomini sulla settantina, con i capelli brizzolati di grigio, erano seduti ad un tavolino verde di plastica vicino al bancone e sorseggiavano lentamente una bottiglia di vino rosso scuro. Di solito cercavo di non bere troppo gli alcolici, mi mandavano in uno stato di confusione che non mi potevo permettere, dovevo essere sempre attenta.
Dopo aver finito la cioccolata ringraziai velocemente Lex ed uscii dal locale.
Il cielo era diventato azzurrino con sfumature porpora e le luci dei lampioni mezzi scassati che incorniciavano le strade cominciavano a spegnersi.
Mi diressi verso casa cercando di mantenere un passo veloce per restare al caldo.
Arrivai nel cortiletto incolto di casa mia e tirai fuori dalla tasca una chiave arrugginita. Dovevo fare un po' di pressione ogni volta che provavo ad aprire quella porta ormai vecchissima ma nell'insieme era robusta quindi non mi lamentavo più di tanto.
Appena entrai sentii dei passetti veloci che correvano sul pavimento e si dirigevano nella mia direzione, era Hero.
Hero era un furetto che avevo trovato mezzo morto assiderato dentro una crepa in un vicolo. Non lo volevo adottare, volevo solo cercare di non farlo morire perché mi faceva pena e poi lo avrei lasciato libero in una radura vicina. Poi però quando si era ristabilito, si era affezionato a me e non me la ero sentita di lasciarlo.
-Ciao piccolo eroe- lo salutavo sempre così da quando era sopravvissuto a quella situazione.
Per tutta risposta lui si arrampicò su una sedia ed emise uno squittio.Mi tolsi l'impermeabile e mi infilai un maglione di lana verde sfilacciato e con qualche buco sulla spalla che avevo trovato in un edificio abbandonato.
Accesi un fuocherello con qualche vecchio ciocco abbastanza umido che fece un fumo tremendo e mi fece arrossare e lacrimare gli occhi.
Mi sdraiai sul divano rattoppato e cigolante che Lex mi aveva rimediato e provai a riposare un po'.Neanche venti secondi dopo bussarono alla porta. Feci uno sbuffo quasi teatrale e innervosita andai ad aprire la porta. Trovai sull'uscio un uomo sulla cinquantina che mi guardava bruscamente. Aveva i capelli sale e pepe, il naso aquilino ed era vestito con un'uniforme nera.
-Lei vive qui?- aveva un tono di voce molto bassa .
-Sì- risposi sgarbatamente - ora che ha chiarito la sua grande curiosità se ne vada, grazie - conclusi.
Stavo per richiudere la porta quando l'uomo disse con tono imperturbabile : - Mandato numero 674 del giorno 21 Gennaio 4999. Sono autorizzato a perquisirle la casa,signorina.Riaprii la porta e lo guardai con un sopracciglio alzato poi vidi che aveva in mano un foglietto di carta e che non era uno dei soliti vagabondi scocciatori che ti rompono le scatole per avere un po' di cibo.
La nostra città non aveva un nome o se lo aveva avuto in passato ormai era stato dimenticato da tempo. Era una città distrutta, dopo La Grande Epidemia il mondo era stato fatto a pezzi e le città erano state dimenticate e incendiate. La popolazione mondiale era stata decimata e quelle poche migliaia che erano rimaste erano rintanate nelle città che non erano state incendiate del tutto.
-Lei chi é?- domandai con voce ferma.
-Sergente Cliff Ortiz signorina.
-Bene sergente, ora può anche andarsene, non me ne frega niente del mandato, lei qui non entra- ordinai.
Ortiz mi guardò stupito. Evidentemente nessuno gli aveva mai risposto così. Il sergente aprì la bocca lentamente e poi la richiuse.
-Signorina, non mi faccia usare la forza- cercò di dirlo in tono autoritario ma sentii che la voce gli si era incrinata.
Lo guardai negli occhi e vidi che era spaventato ad usare la forza ma che era ancora più spaventato da cosa gli avrebbero fatto se non l'avesse usata e se ne fosse andato.
Nella città non c'era una vera e propria legge ognuno faceva un po' quello che gli pareva finché non creava grossi casini, allora quella che noi definivamo "polizia" ,ma che erano solo dei cani comandati da un uomo che si faceva chiamare Dewayne,ti prendevano e ti portavano chissà dove ma era sicuro che non saresti più tornato.
Dewayne si definiva ed era ritenuto il capo della città poiché si diceva che la sua famiglia aveva salvato tanti anni fa la città dagli incendi ma io credevo che nessuno lo metteva in dubbio perché era straricco e metteva a tacere tutti con i soldi.
-Okay, come vuoi, entra pure- decisi di farlo entrare perché pensandoci bene non avevo nulla da nascondere quindi non avrei avuto problemi.
Mi guardò con gli occhi spalancati per un secondo poi si riprese ed entrò con passo autoritario . Evidentemente aveva pensato che ci sarebbe voluto più tempo a convincermi.
Dopo che fu entrato cominciò a frugare in tutti i cassetti e sotto le coperte, negli armadi scricchiolanti e nelle dispense; tastò le assi del pavimento e guardò anche sotto quella che potevo definire cuccia di Hero, il quale non ne fu molto contento e lo guardò in cagnesco mostrando i piccoli denti affilati. Gli feci una carezza veloce e continuai a seguire con lo sguardo Ortiz per non farmi sfuggire i suoi movimenti.
-Scusi se la disturbo dal mettermi la casa a soqquadro ma che cosa sta cercando di preciso?- chiesi con una nota ironica.
Si girò verso di me e accennò ad un piccolo sorriso.
-Ho quasi finito, non si preoccupi, un'ultima controllata e me ne vado-annunciò.
Fece scorrere una mano sul muro come per sentirne la consistenza, passò le dita in ogni crepa e poggiò il palmo in ogni macchia di umidità.
Ad un certo punto si fermò.
Sinceramente non avevo la più pallida idea di cosa stesse facendo.
C'era un piccolo quadro raffigurante dei pesci rossi che avevo trovato sepolto dalle macerie in quello che una volta doveva essere un museo.
Esaminò la superficie del quadro è lo staccò dalla parete con un gesto brusco.
-Ehi! Faccia attenzione!-esclamai sorpresa da quel gesto che non si addiceva molto a quegli occhi sorpresi di poco prima.
Cliff non rispose . Cominciò a strusciare il palmo della sua mano raggrinzita dal freddo sul muro.
Ticchettava con la punta delle dita qualcosa, capii che era una specie di codice.
Non accadde nulla. Ci riprovò questa volta con più insistenza.
-Mi vuole dire che cavolo sta facendo sul muro?- ero sul punto di urlare perché in parte ero anche spaventata.
Si girò di scatto e mi fulminò con lo sguardo. Poi si rigirò davanti a me coprendomi la visuale e rieseguì il ticchettio, questa volta con più determinazione e calma.
Silenzio. Non successe niente.
Mi stavo proprio irritando.
-O mi dice cosa sta facendo o la caccio a calci da casa mia- gli gridai spazientita.
Hero sottolineò le mie parole con un ringhio.
Però ora stava succedendo qualcosa. Era come se il tempo si fosse raggelato e tutte le cose accadevano a rallentatore. Il muro stava perdendo l'intonaco, lentamente, pezzi di calce cadevano a terra ad una lentezza surreale. Più cadevano è più sollevavano una polvere bianca che si depositava sopra a tutto come se stesse nevicando dentro casa.
Poi Ortiz si spostò e fu allora che lo vidi per la prima volta. Non riuscivo a muovere un muscolo, continuavo a fissarlo ipnotizzata non capendo cosa stesse succedendo né se stessi sognando o se fosse realtà.
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A trail of ash
Science FictionIn un futuro distopico, dove niente é come sembra, Zahira, sedicenne introversa orgogliosa e indipendente, scopre di essere completamente diversa da ciò che ha sempre creduto. Quando viene portata a forza in un istituto di ricerca chiamato Verlame l...