Avevo imparato un sacco di cose in quei cinque mesi di prigione: ora sapevo usare i maxiassorbenti per fare le pulizie, installare le luci a soffitto, capire se due ragazze erano solo molto amiche oppure stavano insieme e insultare la gente in spagnolo; conoscevo la differenza tra «starci troppo dentro» (stare bene) e «non starci più dentro» (stare male), il modo più veloce per calcolare uno sconto di pena per buona condotta, ed ero in grado di riconoscere una stronza dello spaccio a un chilometro di distanza così come di distinguere le guardie simpatiche da quelle antipatiche. Inoltre, ero diventata bravissima a preparare un classico della gastronomia carceraria: la cheesecake. Mi cimentai per la prima volta come cuoca in occasione della festa per il ritorno a casa di qualcuno, e preparai una «cheesecake del carcerato» seguendo le istruzioni, mezze in spagnolo e mezze a gesti, della mia collega Yvette. A differenza di molte altre ricette, in quel caso quasi tutti gli ingredienti si potevano comprare allo spaccio. Cheesecake del carcerato 1. Tritate dei cracker e mescolateli con quattro panetti di margarina rubati in mensa. Premete il tutto sul fondo di un Tupperware e cuocete nel microonde per circa 1 minuto, poi lasciate raffreddare perché si indurisca. 2. Prendete una scatola di formaggini a spicchi, schiacciateli con una forchetta e amalgamateli per bene con un vasetto di budino alla vaniglia. Incorporate un po' alla volta una confezione intera di panna in polvere per macchiare il caffè, anche se vi sembra una schifezza. Sbattete brutalmente finché il composto sarà omogeneo. Aggiungete del succo di limone confezionato fino a quando la crema inizierà a solidificarsi. N.B.: Vi servirà quasi tutto il contenuto del limone di plastica. 3. Versate la crema sopra la base di cracker. Riempite di ghiaccio il secchio per le pulizie della vostra compagna di cella e metteteci dentro la torta a raffreddare fino al momento di servirla.
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La prima volta venne un po' molliccia, avrei dovuto usare più limone. Ma fu un grande successo. «¡Buena!» disse Yvette sgranando gli occhi quando la assaggiò. Ero molto fiera di me. La cucina e le tecniche di sopravvivenza dietro le sbarre erano utili, certo, ma era arrivato il momento di imparare qualcosa di più costruttivo. Con cortese insistenza, Yoga Janet aveva continuato a invitarmi alle sue lezioni, e quando un giorno mi feci male alla schiena venne a mettermi il ghiaccio. «Dovresti venirci sul serio a yoga con noi» mi rimproverò con dolcezza mentre me ne stavo sdraiata a pancia in giù sul letto. «La corsa è uno sport troppo pesante per il fisico.» Non avevo intenzione di rinunciare alla corsa, ma cominciai ad andare a yoga diverse volte alla settimana. Quando lo dissi a Larry, scoppiò a ridere. Per anni aveva provato a convincermi a iscrivermi in una palestra fighetta del centro, e trovò divertente e al tempo stesso seccante che ci fosse voluta la prigione perché imparassi la posizione del "cane a testa in giù". La palestra del carcere aveva il pavimento in gomma. All'inizio usavamo dei materassini striminziti di gommapiuma blu, poi, grazie alla tenacia di Janet, ottenemmo dei veri tappetini da yoga arancioni, che qualcuno aveva donato al Campo. Alta, pacata e pragmatica, Janet era capace di infondere la sensazione che ti stava insegnando qualcosa di importante e prezioso senza prendersi troppo sul serio. Veniva sempre anche Camila, del Dormitorio B. In mezzo a tutte le «bambole rotte» che c'erano a Danbury, la notavi subito. Una volta il mio amico Eric la vide in sala visite e la definì «la galeotta più sexy d'America. Senza offesa, eh, Pipes». Camila sprizzava salute e bellezza da ogni poro: alta e slanciata, con una lucida chioma nera, la pelle color caramello, il mento a punta e grandi occhi scuri, la sentivi sempre ridere forte. La sua allegria mi affascinava, anche se qualcuna delle prigioniere bianche la prendeva in giro proprio per quello. «Queste portoricane, sembra che non sappiano neanche di essere in galera! Se ne stanno tutto il tempo a ridere e a ballare come delle deficienti!» sogghignava Sally la Musona, che avrebbe voluto che fossimo tutte depresse come lei. E altrettanto ignoranti: Camila era colombiana, non portoricana. Aveva una predisposizione innata per lo yoga: le posizioni del "guerriero" e i ponti le riuscivano senza alcuno sforzo, e quando cercavamo di stare in equilibrio su una gamba, incastrando l'altra nel "loto", ci scappava sempre da ridere. Sul materassino accanto a Camila c'era Ghada, una delle poche