E così tornai a casa, in aereo, senza ceppi né manette. Atterrammo a tarda notte e Larry mi portò in un appartamento di Brooklyn che non conoscevo, la nostra nuova casa. Cenai con una fetta di pizza all'una del mattino. Il giorno seguente mi presentai nell'ufficio federale del distretto per cominciare i due anni di libertà vigilata. La mia nuova condizione prevedeva esami delle urine, montagne di scartoffie, qualche visita a sorpresa da parte dell'agente di sorveglianza a casa o in ufficio e l'obbligo di richiedere un permesso se dovevo lasciare la città. Ero sul rettilineo d'arrivo di quasi nove anni di controllo o reclusione da parte del governo. Una settimana dopo inziai a lavorare nell'ufficio marketing di un'azienda del settore tecnologico gestita dall'amico che aveva creato quella posizione apposta per me. La dirigenza, che aveva approvato la mia assunzione, mi guardava con una certa curiosità; i miei colleghi, quasi tutti ragazzi giovani, mi accolsero con calore ed entusiasmo. Per la maggior parte delle persone, mettere una crocetta accanto alla voce «precedenti penali» quando si compila una domanda di lavoro significa azzerare le possibilità di ottenerlo. Tutte le mattine, prendendo la metropolitana per andare in ufficio o passando all'alimentari a comprarmi il pranzo, o quando camminavo per le strade di New York la sera, mi sentivo baciata dalla fortuna, un'emozione quasi troppo grande da sopportare. Mentre correvo in Prospect Park nel freddo sole di marzo, le lacrime affioravano all'improvviso e mi bagnavano le guance. Ero soltanto una delle oltre settecentomila persone che ogni anno escono dai penitenziari americani, federali o locali, ed ero ben consapevole di avere molte opportunità in più, «là fuori», rispetto alla maggior parte degli altri detenuti, uomini o donne che fossero. Avevo un posto sicuro e stabile dove vivere, una rete di famigliari e amici pronti ad aiutarmi a ricominciare, e un lavoro prezioso, con l'assicurazione medica. Pensavo spesso al futuro che attendeva le mie compagne di Danbury: un rifugio per senzatetto, una causa civile per riavere la custodia dei figli, prospettive di lavoro incerte. Avevo visto centinaia di donne uscire di prigione con ottimismo, determinate a cambiare vita, e sapevo che quasi tutte avrebbero dovuto cavarsela con le
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proprie forze, senza poter contare su grandi aiuti. L'assenza di empatia è alla base di ogni atto criminale – di sicuro lo è stata nel mio caso – ma l'empatia è anche la chiave perché un ex criminale possa reinserirsi nella società. La società avrebbe il pieno potere di cambiare quanto accade nelle nostre carceri. La gente si aspetta che una condanna sia punitiva ma anche riabilitativa, eppure c'è una differenza enorme tra quello che ci aspettiamo noi e quello che succede nella realtà. Ciò che il sistema penitenziario americano insegna ai detenuti è come sopravvivere in quanto prigionieri, non in quanto cittadini. E non è una lezione molto costruttiva né per loro né per la comunità in cui torneranno. Quando sei in libertà vigilata, non ti è permesso avere contatti con persone che hanno precedenti penali. È passato diverso tempo da allora, e adesso ho riallacciato i rapporti con molte delle donne straordinarie che ho conosciuto dentro. Qualcuna è sposata, ha avuto altri figli o nipoti e conduce una vita tranquilla; qualcuna lavora e studia guardando al futuro con ottimismo; qualcuna invece è malata, in difficoltà. C'è anche chi si batte per cambiare il sistema giudiziario penale, un sistema che alcune hanno dovuto affrontare di nuovo, perché sono finite dietro le sbarre un'altra volta. Nella mia mente riesco a sentire le loro voci e a vedere i loro volti: ogni tanto, in metropolitana, mi capita di cercare con gli occhi tra la folla, come se mi aspettassi di riconoscere Natalie, Yoga Janet o una delle centinaia di donne che ho incrociato sulla mia strada. Prima che andassi a Danbury, un'amica di un'amica di un'amica che aveva scontato un anno in un carcere federale femminile mi aveva spiegato cosa aspettarmi, pronunciando una frase che non ho mai dimenticato: «Non passa giorno senza che io ripensi alla prigione, in un modo o nell'altro». Oggi faccio parte della Women's Prison Association, un'organizzazione no-profit che sin dal lontano 1845 aiuta le donne con precedenti penali a cambiare vita. E non passa giorno senza che io ripensi alla prigione, in un modo o nell'altro. Nel corso del mio lavoro ho parlato con gruppi di detenuti e con membri del personale penitenziario, con funzionari che sorvegliano le persone in libertà vigilata e quelle rilasciate con la condizionale, con difensori d'ufficio, volontari e promotori della riforma della giustizia. Che si considerino riformatori oppure garanti della legge, tutti sono d'accordo nel sostenere che dobbiamo fare di più per cambiare le vite dei carcerati e migliorare il sistema. Gli Stati Uniti hanno la più alta popolazione carceraria del mondo: il venticinque per cento dei detenuti del pianeta, anche se rappresentiamo solamente il cinque per cento dei suoi abitanti. Solo di recente abbiamo
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iniziato a fare tanto affidamento su questo sistema: nel 1980, nelle prigioni americane c'erano circa cinquecentomila reclusi; adesso, sono più di due milioni e trecentomila. La differenza è costituita in grandissima parte da persone come le mie compagne: trasgressori che hanno commesso errori gravi ma che, in termini di violenza, rappresentano una minaccia minima. Quasi tutte le donne che ho conosciuto avevano avuto esistenze prive delle opportunità che molti di noi danno per scontate. A volte mi sembra che abbiamo messo una porta girevole tra le comunità più povere del nostro Paese e gli istituti detentivi, a spese dei contribuenti. L'America ha investito cifre enormi nel sistema carcerario, sottraendo risorse utili alle istituzioni pubbliche che invece agiscono concretamente per prevenire la criminalità e rendere le comunità più solide: scuole, ospedali, musei, centri ricreativi. Possono accadere cose incredibili tra le mura di una prigione, perché gli esseri umani sono straordinariamente resistenti: siamo in grado di sopravvivere a quasi tutto, e questo è uno dei motivi per cui le punizioni severe, da sole, non danno frutti. Affinché il carcere possa davvero rendere un servizio alla società, i suoi amministratori farebbero bene a prendere ispirazione dalle parole di Thomas Mott Osborne, storico direttore della prigione di Sing Sing all'inizio del Novecento, il quale promise: «Trasformeremo questo luogo da un deposito di rottami a un'officina di riparazione».
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Ringraziamenti
Per prima cosa desidero ringraziare mio marito, Larry Smith, che mi sostiene con amore ferocemente caparbio e senza il quale non avrei mai scritto questo libro. Vorrei anche esprimere la mia gratitudine alle donne del penitenziario di Danbury e agli altri detenuti che ho conosciuto lungo la strada, perché mi hanno cambiato la vita. Sono profondamente grata a mia madre, a mio padre, a mio fratello e al resto della mia famiglia per l'affetto e il sostegno che mi hanno dato, oltre che a Carol, Lou e all'intera famiglia Smith. Ringrazio il mio agente letterario, Stuart Krichevsky, per aver creduto in questo progetto, per la sua pazienza e l'impegno indefesso, e Shana Cohen, Jennifer Puglisi, Danielle Rollins e Howard Sanders. Grazie alla mia fantastica editor, Julie Grau, perché ha capito da subito che libro volessi scrivere e mi ha spronata a renderlo assai migliore; e poi a Cindy Spiegel, Laura Van der Veer, Hana Landes, Steve Messina, Donna Sinisgalli, Christopher Sergio, Rachel Bernstein, London King, Anne Tate, Avideh Bashirrad e alla grandiosa squadra di Spiegel & Grau e Random House. Un grazie speciale va alla mia migliore amica, Kristen Grimm, che conosce ogni tappa del viaggio raccontato in queste pagine e non ha mai smesso di starmi accanto lungo il tragitto. E ai miei lettori, Trish Boczkowki, David Boyer, Robyn Crawford ed Ellen DeLaRosa: grazie a ciascuno di voi per l'aiuto e i consigli preziosi. Ho un debito di riconoscenza con tutte le persone che, mentre ero in prigione, mi hanno scritto, spedito libri e aiutata in tantissimi altri modi. Mi sento piccola e umile di fronte alla straordinaria gentilezza di amici e sconosciuti. Desidero ringraziare in particolare Earl Adams, Zoe Allen, Kate Barrett, Michael Callahan, Jeff Cranmer, Cheryl Della Pietra, Gabriella DiFilippo, Dave Eggers, Arin Fishkin, Victor Friedman, John Garrison, Noah Hatton, Liz Heckles, Steve Huggard, Joe Loya, Kirk e Susan Meyer, Leonid Oliker, Julie Oppenheimer, Ed Powers, Brie Reeder, Ted Rheingold, Kris Rosi e la sua famiglia, Jon Schulberg, Shannon Snead, Tara Stiles, Ty Wenger, Penelope Whitney, Kelly Wyllie e Sam Zalutsky.
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Un grazie enorme spetta al mio avvocato, Patrick J. Cotter, e agli altri consulenti legali che mi hanno assistita: Dave Corbett, Wallace Doolittle ed Eric Hecker. Tim Barkow, creatore del sito www.thepipebomb.com, è un buon amico e un generoso genio del computer, così come Teresa Tauchi, cui devo la creazione di www.piperkerman.com. Ringrazio John Carnett, entusiasta fotografo oltre che amico, e Lisa Timothy, per i preziosi spunti sulle domande della Guida di lettura nell'edizione originale. Rientrare nel mercato del lavoro dopo essere stati in prigione è un'impresa sconfortante. Ringrazio quindi Dan Hoffman e tutto il team di M5 per la generosità e la calorosa accoglienza, così come i miei colleghi di Spitfire Strategies per l'entusiasmo e il loro grande cuore. Senza la calorosa ospitalità di Jean Brennan e Zach Rogers, Paul ed Erica Tullis, e di Liz Gewirtzman, probabilmente questo libro non sarebbe mai stato scritto. Grazie anche a quelli di Above and Beyoncé per l'incoraggiamento instancabile e per avermi aiutata a svagarmi quando più ne avevo bisogno. A tutte queste persone va la mia più profonda gratitudine.