Durante la settimana, alle ragazze dell'officina piaceva passare le serate in sala visite. Mi stavo rilassando insieme a loro, circondata da donne che sferruzzavano alacremente, guardavano Fear Factor con gli auricolari o chiacchieravano, mentre Pom-Pom era impegnata in un lavoretto artistico con le matite colorate, probabilmente un biglietto di compleanno. All'improvviso entrò di corsa una detenuta, lo sguardo allucinato. «Il secondino sta distruggendo il Dormitorio A!» La seguimmo nell'atrio dove si stavano radunando numerose persone. L'agente di turno era uno nuovo, un ragazzone simpatico e in apparenza gentile e pacato. Come moltissime guardie, era un ex militare: gente che, terminato il servizio nelle forze armate, aveva ancora davanti a sé parecchi anni prima di poter andare in pensione, così finiva nell'amministrazione penitenziaria. Qualche volta ci raccontavano della loro carriera militare: Maple, per esempio, era stato infermiere in Afghanistan. Il nostro agente, invece, era appena rientrato dall'Iraq e da pochissimo lavorava a Danbury. Si diceva fosse stato di stanza a Fallujah, teatro di combattimenti brutali per tutta la primavera. Quella sera qualcuno del Dormitorio A gli aveva dato problemi, rispondendogli male, e qualcosa in lui era scattato. Prima che chiunque si rendesse conto di cosa stava accadendo, aveva iniziato a distruggere i cubicoli, strappando gli oggetti dalle pareti, le lenzuola dai letti, e rovesciando i materassi. Avevamo paura: duecento donne da sole con una guardia in preda a una crisi psicotica. Una di noi corse fuori e fermò il camion che faceva la ronda lungo il perimetro, che andò giù dalla collina in cerca di rinforzi. Il giovane soldato lasciò l'edificio e le detenute del Dormitorio A cominciarono a rimettere insieme i loro cubi. Eravamo tutte scosse. Il giorno dopo un ufficiale del penitenziario salì da noi e si scusò con le prigioniere per quell'evento senza precedenti. Il giovane agente non lo rivedemmo mai più.
205
Convertita allo zen grazie a Yoga Janet, ben nutrita per merito di Pop e ora anche esperta nella preparazione del cemento ed elettricista dilettante, sentivo che stavo sfruttando al massimo l'esperienza in prigione. Se quello era il peggio che i federali potevano farmi, nessun problema. Poi, un giorno che chiamai mio padre per parlare dei Red Sox, lui mi disse: «Piper, la nonna non sta bene». Gentildonna minuta del Sud, ma dotata di un carattere forte e severo, la nonna era stata una figura costante nella mia vita. Era nata in West Virginia, ed essendo cresciuta durante la Depressione con due fratelli e poi diventata madre di quattro figli maschi, non sapeva bene cosa fare con una bambina – la sua prima nipote –, tanto che io avevo paura di lei. Continuò a mettermi in soggezione anche più avanti; tuttavia, crescendo, i nostri rapporti si ammorbidirono. Quando eravamo sole, mi parlava a cuore aperto di sesso, femminismo e potere. Lei e il nonno erano rimasti allibiti e sconvolti dalle mie disavventure criminali, eppure non mi fecero mai dimenticare che mi volevano bene ed erano preoccupati per me. La mia peggiore paura era che uno di loro morisse mentre ero dentro. Implorai mio padre al telefono: la nonna sarebbe guarita? Si sarebbe rimessa? L'avrei trovata a casa al mio ritorno? Lui non rispose, mi disse soltanto: «Scrivile». Scrivevo regolarmente ai nonni brevi messaggi allegri per aggiornarli, rassicurandoli che stavo bene e non vedevo l'ora di riabbracciarli. In quel momento, invece, mi sedetti per scrivere una lettera diversa, una lettera che facesse capire alla nonna quanto era importante per me, quanto avevo imparato da lei, quanto desideravo eguagliare il suo rigore e la sua integrità, quanto le volevo bene e mi mancava. Non riuscivo a credere di aver incasinato le cose a tal punto da essere rinchiusa lì dentro mentre lei aveva bisogno di me, mentre era malata e forse stava morendo. Subito dopo averla spedita chiesi alla segretaria del Campo un modulo per la licenza premio. «Ti ha cresciuta tua nonna?» mi domandò brusca. Quando le risposi di no, disse che non aveva senso darmi quel foglio, tanto non avrei mai ottenuto la licenza per una parente di secondo grado. Ribattei seccata che, siccome ne avevo il diritto, avrei presentato comunque la richiesta. «Come ti pare» replicò acida. Pop mi spiegò con delicatezza che in realtà non avevo alcuna possibilità di ottenerla, nemmeno per andare a un funerale, a meno che si trattasse di un genitore, un figlio, forse un fratello o una sorella. Non voleva che mi facessi illusioni. «So che non è giusto, tesoro, ma è così che funzionano le cose qui.» Avevo visto tante altre detenute soffrire durante la malattia dei loro cari, e