Capitolo 3

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Era già Giugno. Erano passati tre mesi da quando ero atterrata a San Diego e avevo abbandonato la mia vecchia vita. Certo, non l'avevo completamente abbandonata, ma cercavo di tenerla nell'angolo più remoto della mia mente convincendomi che quello che avevo fatto era giusto e che le persone care che erano a Baltimora e a New York stavano bene. Non dovevo lasciarmi influenzare dalle mie emozioni deboli e dal fatto di non essere mai stata così tanto tempo lontano da casa da sola. Però questo voleva dire crescere ed era uno dei migliori modi che abbia scelto, anche se implicava ritrovarsi a lavorare in un bar a parecchi chilometri da New York.

«Ally mi serve una mano, il tuo amico è tornato di nuovo e ha intenzione di guidare fino a casa», disse la ragazza posando dei bicchieri nel lavandino dietro al bancone.

«Grazie Sarah», la ringrazia togliendomi il grembiule e appendendolo a un gancio. «Ora ci penso io». Mi avvicinai a lui. La sua testa era nascosta tra le braccia e i suoi lunghi capelli castani, nascosti da un berretto con un'enorme visiera, toccavano il piano del bancone e gli sfioravano le braccia. Sembrava come se si fosse addormentato, ma non era così. Sapevo per certo che stava cercando di nascondere qualcosa che noi non potevamo vedere, qualcosa che era solo nella sua mente e che lottava contro di lui. «Ehi...», dissi posando una mano sulla sua spalla. «Matthew, è ora di tornare a casa», lui alzò leggermente la testa e si appoggiò di nuovo sulle sue braccia tenendo il viso voltato verso di me. Non so come era iniziata questa storia, so solo che da quando ho iniziato a lavorare in questo bar, Matthew mi raggiungeva ogni tanto e restavamo a parlare fino alla chiusura. Fino a un mese fa dove la sua presenza si era fatta più frequente e il suo tasso di alcool nel sangue più alto.

«Sarah non mi lascia andare», biascicò. I suoi occhi castani si chiusero di nuovo. Sembrava un bambino nonostante fosse grande e grosso.

«E sai perché?», gli domandai. «Perché hai bevuto ancora e sono le tre del mattino, non posso farti guidare fino a casa tua in queste condizioni. Saresti un pericolo più per gli altri se non per te stesso. Ora dammi le chiavi dell'auto», gli dissi tenendo la mano tesa verso di lui.

In un primo momento sembrava confuso, ma poi s'infilò la mano nella tasca dei jeans e prese, con fatica, le chiavi della macchina e me le porse.

«Aspettami qui, vado a chiamare un taxi»

«N-no...», disse posando una mano sul mio braccio. «N-niente tassì. Mark!»

«Come?», chiesi non capendo quello che aveva detto.

«Ma-mark. Chiama Mark, lui può venirmi a prendere», spiegò porgendomi il suo telefono. «È-è tra le ultime chiamate»

Guardai il ragazzo accasciato sullo sgabello e poi il cellulare che mi aveva dato, dovevo fare come mi aveva chiesto, così chiamai il suo amico. Dopo diversi squilli rispose una voce piuttosto assopita. «Tom, ma che cazzo!», farfuglio con la voce impastata dal sonno.

«Buonasera, mi scusi il disturbo, sono Allyson, l'ho chiamata a causa di Matthew...»

«Ha combinato qualcosa?», chiese il ragazzo dall'altra parte della linea, più attento di prima.

«No, non esattamente. Ha solo bevuto un po' troppo e mi ha chiesto di chiamarla»

«Certo, certo», disse questa volta più rilassato. «Beh, arrivo subito, grazie. Dove, beh, dove posso venirlo a prendere?»

«Al "The Space" sulla...»

«Sì, sì, so dove si trova, grazie mille», si affrettò a dire riattaccando la chiamata.

«Sai che non è carino far scomodare la gente a tarda notte?», domandai al ragazzo seduto davanti a me, porgendogli il suo telefonino. «Il tuo amico sembrava preoccupato»

San Diego || Tom DeLongeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora