1. L'AMORE COMPORTA

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Era l'ultima persona che mi sarei aspettato di veder entrare al ristorante. Lei. Aveva i capelli più chiari, era dimagrita, aveva un tatuaggio sul collo, e uno stile completamente diverso. Ma era lei, e quando la vidi arrivare al mio tavolo con Jessica e Kiara il mio cuore mancò un battito. Dissi un ciao veloce, in italiano e lei prima sconcertata e poi con lo sguardo basso mi rispose. Lo stupore dell'altre due era tangibile e Jess chiede se ci conoscevamo. Non risposi, aspettai fosse lei a farlo e lei rispose semplicemente "Faceva la mia scuola" per poi cambiare subito discorso, affermando che il ristorante era molto bello. Aveva un inglese fluente, molto diverso da quello che mi ricordavo. L'avevo conosciuta sei anni prima, era nella classe di fianco alla mia. La vedevo passare gli intervalli a legger libri e ascoltare musica, protetta da un muro verso tutti gli altri, e in quei mesi in cui la osservavo avrò visto due o tre persone mettere piede nella sua fortezza. Io probabilmente, son stato l'unico che ci si è catapultato dentro e l'ho fatta mia: la fortezza, e lei. Sorrideva in continuazione, era come un raggio di sole. E lo è stata per molto, stavo con lei quasi sempre, mangiavamo insieme, dormivamo insieme. Mi accarezzava la spalla mentre vomitavo nel cesso di casa sua per il troppo alcol, il troppo fumo, la troppa droga; mi abbracciava quando le storie con le tipe andavano a puttane. Lei che c'era sempre stata, e che io avevo mandato via. Piano piano quando passavo dalla sua classe ho iniziato a veder sempre meno libri, meno cuffiette nei corridoi. Iniziai a vederla in discoteca, in centro: barcollante, con le pupille dilatate, gli occhi rossi. E poi c'eravamo persi di vista, cosa ci faceva qui? In una città oltreoceano, da sola?

La cena proseguì tremendamente tranquilla, lei non mi guardava: era come se non esistessi e io non potevo impedirmi di fissarla per capire se era davvero lei. Aveva abbandonato il suo stile uniformato alle altre ed era molto diversa. Si era bevuta una birra grande, per poi ordinarne un'altra, media stavolta. Era come un'altra persona dalla Sarah che ricordavo io. Non aveva nessuna fortezza, era come se con chiunque parlasse, o stesse si sentisse tremendamente bene, come se tutto fosse bellissimo. Ma le erano rimasti gli occhi grigi, velati dalla tristezza, come se ancora un posto non lo avesse trovato. Li stessi occhi che aveva quando mi aveva visto di sfuggita in centro, con Laura, dopo essersi dichiarata a me. Durante quella cena ho continuato a provare ad intavolare una conversazione, ma lei continuava a non guardarmi, a rispondere senza sentimento. Non capivo se stesse recitando, ma in caso sia così: era dannatamente brava. Arrivò un ragazzo al tavolo, pieno di tatuaggi, con gli occhi rossi e il sorriso di chi si è appena fatto un lotto. E la baciò, con una tenerezza che non avrei mai creduto uno così potesse avere. Quando uscì dal ristorante e la vidi all'angolo, mentre si fumava tranquillamente il suo joint capii di esser stato un cretino. La Sarah che conoscevo le canne le odiava, la birra e l'alcol in genere erano figli del diavolo. Lì ho capito, che in quel circolo vizioso l'avevo mandata io. Che io, io che ho passato un anno e mezzo a cercare di proteggerla, che me ne sono andato per proteggerla da me: l'avevo fatta diventare esattamente come ero io. Si volse verso di me, ridendo e offrendomi il fumo. Avrei potuto fumare, iniziare a ridere anche io, e perché no, magari da fatti l'avrei sentita più vicino, ma avevo fatto una promessa a me stesso e quindi declinai l'invito. Lei scoppiò a ridere, squadrandomi, e facendomi il medio salì sulla moto di quell'imbecille tatuato.

A casa spaccai una parete di cartongesso dalla rabbia, non esisteva per me che lei fosse così. Così lontana da me, così vuota. Davo pugni e piangevo, non piangevo da anni. Io ero cambiato, ero diventato un ragazzo modello, e lei per proteggersi da quelli che sono come ero io, è diventata come me. Sentii del casino fuori dalla porta e mi sporsi a vedere e notai l'imbecille in moto: Trevor. Lei che ci strusciava contro, che lo baciava fin troppo trasportata. Non ci vidi più dalla rabbia e presi a pugni il porticato. Le nocche si aprirono, il sangue iniziò a defluire sulle mani, la vena del collo a pulsare. La sua bocca si stacco da quella del ragazzo, e mi vide. Era la prima vera espressione che notavo sul suo e dio' mio: era di compiacimento. Per poi tornarlo a baciare. Penso in quel momento di esser sbiancato, e aver perso le forze. Mi rifugia in casa, sul divano, mentre il sangue iniziava a seccarsi con una bottiglia di vodka. Erano due anni che non bevevo. Lei era morta, e io avevo smesso di bere.

Due, tre ore dopo, ero ancora lì. A commiserarmi e sentirmi in colpa, quando qualcuno busso alla porta. Mi ci trascinai letteralmente, e mi trovai lei davanti a me. Di primo istinto le avrei chiuso la porta in faccia, ma sapevo che voleva aiutarmi: era nel suo carattere, aiutare gli altri sempre. La feci entrare, barcollando fino al divano per poi buttarmici su, come un sacco di patate. Se fosse stata qualsiasi altra persona, non le avrei mai permesso di vedermi così, ma era lei e mi aveva visto in situazioni ben peggiori. "Alzati" lo feci, malgrado ero infastidito dal fatto che mi desse ordini. Mi tenne su con un braccio, e solo quel tocco, nonostante la sbronza, mi mandò in estasi. Quanto tempo che non mi sfiorava. Probabilmente lo dissi a voce alta in quanto lei commentò di non abituarmici e mi chiese dove fosse il bagno. Mi spogliò completamente, senza indugiare su nessuna parte del mio corpo, più o meno come se a spogliarmi fosse mia madre e in quell'istante capii che probabilmente era stata con dozzine di ragazzi da quando io me ne ero andato. Mi buttò nella vasca quasi a forza, e con acqua che mi sembrava gelida iniziò a lavarmi le nocche, il viso. Le sussurrai un grazie impastato, e la vidi alzare gli occhi al cielo. Lei non mi credeva, quando l'avevo vista arrivare volevo dimostrarle che ero cambiato, cresciuto e invece non è passato neppure un giorno che mi vedeva già come quando ci eravamo allontanati. Un fallito.

Mi asciugò, e mi mise a letto, che la sbronza era già passata, ero solo stanco. La ringraziai di nuovo, con affetto, e la vidi accennare un minimo sorriso e una sensazione di calore mi pervase il petto. Lei, lei era perfetta. Notai solo ora che aveva dei pantaloni della tuta larghi, e una felpa che se non ricordo male anni prima era stata mia. Iniziò a girare per la stanza, i mobili erano antichi ma avevo fatto il possibile per renderla più consona a me. Una parete era tutta nera e appese c'erano poesie, o quadri. Il mio basso, ed una tastiera occupavano un lato della camera, il lato in cui senza nessuna esitazione lei si diresse subito. Sfiorò il basso con le dita, e mi vennero in mente scene di anni prima, con lei tra le gambe e io le insegnavo come suonarlo, e lei non riusciva: mai. "Suoni ancora?" lo chiese come se fosse dispiaciuta, come se fosse una cosa solo tra me e lei.

"Si suono, non ho mai messo a dir la verità" mi alzai dal letto andandole incontro e notai che aveva un tatuaggio sul polso, ma coperto dalla felpa non riuscivo a vedere il soggetto. Sfiorava il manico dello strumento con delicatezza e non capii subito che aveva trovato il punto in cui c'era inciso il suo nome, e quello di Laura. Mi guardò tra l'incredulità e la delusione. "Insieme a lei, eh?" non risposi, abbassando lo sguardo. Quella ragazza mi mandava a puttane il cervello­. "Penso dovresti andare Sarah" lei annui, dirigendosi verso l'uscita, sull'uscio si girò e mi guardo decisa: "Vivrò la mia vita, tu viviti la tua.". per addolcire quelle parole probabilmente mi accarezzò una guancia, e io le presi il polso per vedere il tatuaggio. "Capita e poi passa".

Le lasciai andare il polso come scottato, e lei scappò come colpita. Mi alzai la maglia e guardai il mio tatuaggio sul fianco, fatto solo un mese prima "Capita e poi passa"

Capita e poi PassaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora