2. Push

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Non capisco perché ero così eccitata nell'entrare qui dentro! È solamente un magazzino con scaffali e scaffali pieni di scatoloni con scartoffie, pile di libri e altra roba inutile che probabilmente tengono nel caso in cui database e backup vadano...

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Non capisco perché ero così eccitata nell'entrare qui dentro! È solamente un magazzino con scaffali e scaffali pieni di scatoloni con scartoffie, pile di libri e altra roba inutile che probabilmente tengono nel caso in cui database e backup vadano in fumo uno dopo l'altro. Ed è anche, probabilmente, il posto più impolverato di questo centro.
Devo essere la prima ad essere entrata qui dentro in mesi, forse anche in anni. Lo spessore della polvere potrebbe bastare per erigere una statua.
Continuo a pulire, con il braccio davanti alla bocca perché nessuno mi ha dato una mascherina, prima di notare l'impronta di una mano sul coperchio di uno degli scatoloni.
Lo apro, curiosa, ma al suo interno ci sono solo altri fogli di carta. Poi un nome attira il mio sguardo. Alzo il fascicolo intero e inizio a sfogliarlo, senza capire assolutamente niente di quello che c'è scritto, così ritorno sulla prima pagina e leggo i dati anagrafici di un certo "Eleazar Sokolov".
Dovrebbe avere 20 anni ed è nato qui, nel New Hampshire.
I suoi genitori sono Bjorn Sokolov e Matilde Grace e, per come dice il rapporto della polizia locale, è scomparso mentre i suoi genitori si temono morti.
All'improvviso sento il rumore di tacchi avvicinarsi e una voce femminile, elegante ma allo stesso tempo potente, parlare a qualcuno.
Indietreggio leggermente, con il fascicolo in mano. Un movimento brusco mi fa perdere l'equilibrio e inciampo nei miei piedi, così distrattamente spingo la scatola per sorreggermi e la faccio cadere dal lato opposto dello scaffale. L'azione rivela alla mia vista un pulsante nero, nascosto da un pannello lasciato semiaperto, che sembra invitarmi a premerlo.
«Che cosa ci fai qui?» Mi chiede un uomo, e dal camice bianco che indossa posso dire che è un ricercatore. «Questa è un'area privata!»
Deve avere sui cinquant'anni, forse un po' di meno. I capelli grigi e brizzolati e le rughe nell'angolo degli occhi e sulla fronte gli conferiscono quel aspetto da vecchio rompiscatole che tanto detesto. Nella targhetta sul camice bianco leggo il nome "Bringer Morris".
Mentre mi alzo, infilo il fascicolo in mezzo ad altre scatole, coprendo la mano con il mio corpo, poi mi volto verso il ricercatore.
«Mi scusi,» inizio a dire,«ma è il mio primo giorno qui al centro di ricerca e mi hanno affidato l'incarico di pulire le stanze di quest'ala.»
«Guarda che cosa hai combinato!» Esclama, indicando lo scatolone caduto. «Sai quanto ci vuole per mettere in ordine quei fogli, imbranata?»
Sento le mie guance scaldarsi, e molto probabilmente sono rosse come due peperoni maturi, sia per l'imbarazzo, sia per il fatto che mi ha insultata. Beh, non si può chiamare veramente insulto, ma il fatto che l'abbia detto lo rende tale.
Credo.
«La prossima volta non entrare qui. Questa stanza è riservata e nemmeno le domestiche possono entrare. Un altro sgarro di questo tipo e dovrai pulire i cessi dell'inferno. Ci siamo capiti?» La sua minaccia mi spaventa, il volto serio con cui lo dice esplicitamente mi intimorisce e così, a testa china, rispondere con un: «Sì, signore.»
Una volta fuori dalla stanza, con tutti gli strumenti che mi sono portata, inizio ad allontanarmi mentre guardo il mio orologio digitale da polso che segna quasi le quattro del pomeriggio.
Forse dovrei chiamare Everly, mia cugina, che ha lavorato in questo centro di ricerca una decina di anni fa prima di essere spostata in quello nel Vermont. Almeno questo è quello che dice zio Ores.
Lo noto con un leggero ritardo, ma sto piangendo. Mi sono davvero spaventata così tanto?
Tiro fuori il mio cellulare, cerco il numero di mia cugina e lo guardo per un paio di secondi, giusto il tempo di calmarmi, fare riemergere il mio tipico carattere da stronza menefreghista e rimettere l'aggeggio in tasca.
Asciugo le lacrime con il pollice, cercando di non far sbavare il filo di eye-liner nero, poi tiro su il mento procedo a passo sicuro verso lo sgabuzzino dove ripongo gli strumenti che ho usato.
Quando esco fuori, mi trovo davanti Fran, con il suo stupendo viso preoccupato.
Non ci conosciamo da molto, forse dal giorno del colloquio avvenuto una settimana fa e non ci siamo viste nemmeno una volta prima d'oggi, eppure si preoccupa già per me.
O forse vuole sapere cosa mi è successo per non commettere lo stesso errore.
Ecco, forse questa è la spiegazione più credibile.
Prima che mi possa chiedere qualcosa, inizio a parlare.
«Non entrare nella stanza alla fine del corridoio. A quanto pare è solo un magazzino dove tengono scaffali e scaffali di roba inutile che non vogliono pulire» spiego in modo sarcastico, cercando perfino di accennare ad un sorriso. Forse ci riesco, perché Fran mi dà una pacca sulla spalla e sorride di rimando dicendomi nel mentre: «Te la caverai!»
Non appena la vedo allontanarsi, tiro fuori dalla tasca la mela che ho risparmiato prima per mangiarla adesso.
Già forse me la caverò.

***
Non appena rimetto il piede nel mio monolocale, emetto un sospiro così profondo da riempire bene i polmoni.
Mi butto sulla piccola e vecchia poltrona in pelle e alzo i piedi sul tavolino mentre lancio la mia borsa a tracolla sul letto.
Mi guardo in giro: non c'è molto da vedere. Ci sono solo tre stanze, una camera, un bagno e un angolo cottura. Effettivamente non ho una cucina.
Sull'unica mensola presente sulla parete, tengo tre cose: una foto di me con i miei genitori, un piccolo pugnale è un vaso di fiori finti.
La finestra s'affaccia sul parco della città, dove a quest'ora non ci sono bambini, bensì pusher e drogati, ormai liberi di circolare come niente.
Sotto il letto ho nascosto una pistola e una mazza da baseball.
Nell'armadio ho solamente i miei vestiti e una scatola con i miei documenti che mi riporta a pensare a cosa mi è successo oggi.

Continuo a ripensare a quello stanzino, è come se mi richiamasse.
Penso ad Eleazar Sokolov, quel bambino scomparso dieci anni fa che, quest'anno dovrebbe avere la mia stessa età. Mi ritorna in mente il modo in cui per dei fogli caduti, Bringer Morris mi ha minacciata di morte. So che ormai è luogo comune farlo grazie alla nuova Costituzione, ma la morale è davvero scomparsa insieme alla buona educazione? Io ho fatto solo il mio lavoro, e non ho meritato per nulla quel trattamento.
Il mio spirito ribelle mi comanda di ritornare in quel posto, premere il pulsante e vedere cosa diavolo succede.
Perderò il posto di lavoro nemmeno dopo una settimana da quando l'ho iniziato? Forse.
Probabilmente dovrò correre come una pazza per non essere uccisa? Poco ma sicuro.
Sazierò la mia curiosità? Certo.
Mi alzo dalla poltrona e vado in bagno per rinfrescarmi.
Mi guardo allo specchio e mi valuto: occhi chiari e spenti, capelli biondi sciupati, guance paffute che non si sono sgonfiate con la pubertà, naso piccolo e labbra carnose. Beh, almeno un pregio devo averlo.
Mi spoglio dell'uniforme ed entro sotto la doccia, dove riesco a pensare più lucidamente, ma nulla è cambiato. Il getto d'acqua freddo mi attiva anche di più.
Una volta fuori dal bagno, vestita con il pigiama, mi getto sul letto senza nemmeno asciugarmi i capelli e tutto quello che ho pensato si trasforma in cibo per il sonno.
Anche perché non ho abbastanza fame per cenare.
Domani mi aspetta quel pulsante. E la corsa per scappare.

||Jo||

Una ribelle come Scarlett non si comanda! XD

Stay awesome!
-Jo

Beast Awakened || I Racconti Rapsodici Delle Anime Eccelse(IIII)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora