Vicoli ciechi

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Di giorni ne erano passati due, poi tre. La Nives andava e veniva e Vincenzo non faceva domande.

«Aspetta.» diceva lei entrando, poi parlava di altro.

Era andata in città due volte e aveva parlato con un avvocato, sprecando i "metti caso" e i "facciamo un'ipotesi". La prima volta aveva ottenuto risposte vaghe, la seconda più precise, e non erano state confortanti. Niente prescrizione, nessuna invocazione dell'infermità, il rischio concreto era la galera per Vincenzo. Se anche l'indagine originale fosse stata archiviata (tutte e trentadue, ammesso che fossero state aperte) il rischio era che adesso i bambini cresciuti lo citassero per danni o per una qualunque altra cosa. Ne bastava uno, uno solo che volesse vendicarsi per aver perso tre giorni di vita da bambino ed era fatta. La sola via di fuga praticabile sarebbe stata far rinchiudere Vincenzo da qualche parte, mettere in fila le sue stranezze, farle quadrare con una patologia psichiatrica e metterlo da qualche parte. Il punto era che, Nives ne era certa, da lì non sarebbe mai uscito. Vincenzo aveva davvero dei problemi, non era necessario simularli o ingigantirli, c'erano, erano lì. Le sue bravate in quei sedici anni erano state la punta di un iceberg molto grosso, le cui radici erano sepolte, vecchie di cinquant'anni. Non si rapiscono dei bambini, pur con le migliori intenzioni del mondo, se non c'è qualcosa di deforme che ti dia una bella spinta. Niente al mondo, ormai, avrebbe curato Vincenzo, figuriamoci guarirlo. E riprendere i contatti con i bambini che un tempo aveva portato via alle proprie famiglie sarebbe servito solo a farlo a pezzi, in un modo qualsiasi, bastava pescare dal mazzo. Certo, la Nives non era indifferente al pericolo che i figli di quei ragazzi stavano correndo. E ne era certa, il pericolo c'era, lei alle coincidenze non aveva mai creduto, due figli morti potevano anche passare, due paperelle no. Non vedeva altra soluzione che tagliare fuori Vincenzo dall'intera faccenda. Così quel pomeriggio gli era piombata in casa tenendo in mano tre vecchi cellulari e tre schede telefoniche nuove.

«Non mi stare a chiedere da chi le ho avute perché è troppo lunga. Ho chiesto un paio di favori. Comunque: queste sono schede ricaricabili, i ragazzi sono trenta, che due non hanno più bisogno, poveretti. Ne chiamo dieci con ciascuna, li avverto e poi butto tutto. A chiamare vado via, per quella cosa delle intercettazioni, prendo un treno e vado a Bologna, ok? Poi da Bologna chiamo tutti, butto le schede, butto i cellulari e torno a casa.»

«E io cosa faccio?»

«Stai qui e mi aspetti.»

Vincenzo, con le mani in tasca, si era rabbuiato.

«Non spetta a te, spetta a me.»

«Quelli che hai commesso sono reati, Vincenzo. Trentadue. E ne basta uno per metterti in galera e buttare la chiave. E poi chi ti dice che non penseranno che sei stato tu anche adesso? Come faresti a dimostrare il contrario? Te ne stai sempre chiuso in casa, in paese scendi ogni morte di papa, come lo sanno, loro, che non sei stato tu?»

«Ma non sono stato io.»

«D'accordo, questo è chiaro a me e a te. Ma a loro no. Loro, la polizia, i genitori di quei due poveri bambini. Loro non lo sanno.»

«Non ho mai fatto male a Remo o Aldina.»

«Allora ascoltami!» esplose la Nives esasperata «Vuoi andare in galera?»

«No.»

«Vuoi finire in qualche ospedale psichiatrico?»

«No.»

«E allora basta, lo faccio io.»

Vincenzo andò a sedersi in poltrona. La Nives si sentì in colpa per averlo strapazzato, ma se non ragionava in qualche modo doveva aiutarlo. Giocò la carta più sporca.

Non ti faccio nienteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora