Domino

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Se voleva passare inosservato quella non era l'auto giusta, e Daniele lo sapeva. Era vecchia, tenuta bene ma non se ne vedevano molte in giro. L'idea era comunque stata di non muoversi con la propria, metti che le loro paranoie avessero un fondamento, chissà. Suo padre era andato a prenderla nel cuore della notte, la Seat Toledo rossa, senza una domanda. Dal suo garage l'aveva portata nel proprio e aveva nascosto le chiavi nella cassetta degli attrezzi che teneva sempre pronta in garage. Gliele aveva porte con lo sguardo umido così pieno di cose sospese che sembrava un lampadario dell'ottocento. Non ne avevano mai parlato, prima di quella mattina, Daniele non era andato a vederla, non ci era salito. Sapeva cosa sarebbe successo, e puntualmente accadde, il portaoggetti aperto, il libretto spiegato, il nome, il cognome, l'indirizzo del proprietario. Adesso lui era il solo a sapere dove si trovava il rapitore di quei trentadue bambini. Non provò trionfo, nessuna sensazione di averlo in pugno, solo una specie di nostalgia, quasi che quel paesino umbro si trovasse su un altro pianeta. Non sarebbe andato a cercarlo, non voleva, Giacomo aveva avuto ragione, stava a loro. Il ricordo dell'uomo pallido, con i capelli rossi e gli occhiali arrivava sempre come una frustata. Così strano, così determinato, così morto. Quanto l'avrebbe voluto, lui, salire su quella macchina. Così, mentre attraversava il paese diretto alla stazione, non aveva resistito all'impulso di passare davanti alla biblioteca. L'auto di Giacomo era ancora lì. Accanto all'auto di Giacomo c'era una volante della polizia. Una poliziotta guardava dentro attraverso i vetri, un poliziotto prendeva appunti. E in quell'istante, non quando era stato interrogato per una giornata intera, non quando aveva visto il cadavere del bambino o quello dell'uomo che si definiva suo fratello, non quando aveva incontrato Vincenzo dopo 25 anni dal suo rapimento, ma mentre vedeva quella scena seppe che la sua vita era cambiata per sempre, che la vita quieta e innocua era andata. Gli tornarono in mente le parole di suo padre, quella mattina.

«Io lo so che sta succedendo qualcosa, Daniele, i giornali li leggo. E non ti chiedo nulla. Mi basta essere sicuro che te lo sai che se serve qualcosa io sono qui. Il tuo babbo è qui, anche la mamma, ma soprattutto io.»

Ed era stato strano, un sapore di addio che non gli era piaciuto, quindi si era sforzato e gli aveva messo una mano sulla spalla dicendo

«Lo so, babbo, lo so.»

guadagnandosi l'ennesimo abbraccio. Lo sapeva, che suo padre era lì, del resto quando aveva dovuto chiamare qualcuno all'alba, in un bosco pieno di cadaveri, era stato a lui che aveva telefonato. Alla polizia e ai carabinieri arrivati sul posto aveva detto che era stato per tranquillizzarli, erano anziani, se non lo vedevano si sarebbero preoccupati. Ma erano balle. Solo su suo padre poteva fare ciecamente affidamento.

Prese l'autostrada in direzione La Spezia, era in anticipo, arrivò all'autogrill molto prima dell'ora di pranzo. Salì le scale, lo attraversò tutto per vedere se Mariangela fosse arrivata, fece un giro anche nel parcheggio verificando se la Micra fosse lì. Il patto era di non telefonarsi se non in casi estremi e non ce ne fu bisogno. Se la trovò davanti di fronte a una montagna di Tobleroni, pallida, il fiato corto.

«Non ho visto la macchina.»

«Sono venuta con quella di mio padre. Lui non guida più, mia madre nemmeno, ogni tanto la faccio muovere perché non si rovini, la scusa era questa.»

«Io ho la macchina di Vincenzo.»

A sentire il nome Mariangela sussultò, poi alzò la mano, come a dire che stava bene. Ma non stava bene affatto.

«Nel bagagliaio ci sono tutte le cose di Giacomo, i fogli, le cartelle. Sono passato a prenderli alla stazione di Pisa, che mi stava costando un botto tenerli lì.»

Non ti faccio nienteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora