Un secondo reame

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Mi svegliai all'improvviso, ancora intontito.
La mia testa era pervasa di fitte lancinanti e sulle labbra avvertivo il sapore metallico del mio sangue.
Il mio naso captava il suo odore e i miei occhi ne avvertivano il colore.
Mi trovavo sdraiato su di un gelido pavimento di pietra, mani e piedi legati.
Man mano che tenevo gli occhi aperti, mi abituato al buio in cui ero immerso.
Di fronte a me un tavolo di legno cosparso di resti di carni di tutti i tipi e di boccali ormai svuotati.
La notte aveva preso il sopravvento e il freddo gelido della roccia su cui poggiavo si infiltrava sulla mia pelle nuda.
Mi accorsi solo in quel momento che avevo addosso solo un paio di mutande, il resto mi era stato portato via, compreso il prezioso arco che mi era stato donato.
Scrutai attentamente la zona per assicurarmi che non ci fosse nessuno.
"Aspetta, come nessuno?!"
Mi ricordai in quel momento che anche i miei figli erano stati rapiti.
Abbandonai ogni tipo di prudenza e cercai di rialzarmi.
Riuscii a mettermi in piedi, sebbene le funi fossero strette talmente forte da lasciarmi lividi sui polsi e sulle caviglie.
Nessuna traccia di spade, nemmeno di semplici stiletti.
Per liberarmi mi accontentai di un coltello brutalmente conficcato nel tavolo.
Lo estrassi con violenza e lo utilizzai per liberarmi.
Ci misi un bel po' di tempo: la lama era davvero poco affilata data la forza con cui era stata incastrata nello spesso legno del tavolo.
Mi concentrai sulle mie orecchie per avvertire un suono in quel silenzio, per sapere da che parte andare per cercare i miei figli, ma tra quelle spesse pareti di pietra ogni suono non riusciva a passare.
Cercai di calmarmi e di fare il punto della situazione, darmi un ordine mentale.
Avevo come primo obbiettivo quello di trovare i miei figli, ma non potevo di certo farlo in mutande e come unica arma un coltello non tagliente: dovevo ritrovare i miei vestiti e le mie armi.
Mi alzai lentamente dal freddo pavimento perché ad ogni lieve movimento la testa mandava delle fitte acute attorno a tutto il cranio per concludersi dietro gli occhi.
Aspettai qualche secondo che la sensazione di vertigine passasse e poi mi diressi il più silenziosamente possibile verso l'unica porta presente in quel luogo.

Appoggiai l'orecchio al legno della porta per sentire se ci fosse qualcuno dall'altra parte, ma non captai niente.
Decisi allora di aprire la porta, ma sempre con molta calma.
Intravidi nello spiraglio che mi ero creato con la porta semi aperta un corridoio piuttosto lungo dalla cui fine proveniva una luce rossa, come quella della legna che brucia.
Mi decisi ad andare verso quella luce perché lì ci sarebbero potuti essere i miei figli o i miei averi.
Nell'andare verso quella direzione sbucò da una parte del corridoio un essere mostruoso.
Era alto quanto me, con i denti storti e con qualche capello bagnato con del fango.
Addosso portava una pelliccia che emanava un'odore di putrefazione.
Le sue gambe erano coperte con delle piastre di metallo e impugnava una spada anch'essa sporca di un liquido nero che a prima vista avevo interpretato come veleno.
Appena i suoi occhi incontrarono i miei, si fiondò contro di me a spada tratta.
Riuscii a schivare il suo primo colpo, la spada mi passò vicino al fianco.
Distratto dalla vicinanza dell'arma non mi accorsi che con la mano stretta in un pugno il mostro mi stesse per colpire.
Arrivata la botta barcollai all'indietro, la testa che pulsava come se ci fosse un martello all'interno. Mi sentii accasciare a terra perché il freddo aveva invaso la mia schiena.
Dopo un momento di smarrimento, i miei occhi videro il mostro prepararsi ad attaccare ancora una volta: aveva la spada alta e rivolta verso l'alto, pronta ad investirmi con la sua lama.
Cercai di schivare il colpo rotolando verso sinistra, ma la creatura riuscì ugualmente a ferirmi il braccio sinistro.
Dopo un grido di dolore, mi alzai il più velocemente possibile e mi spinsi contro l'orco.
Cinsi le mie braccia attorno alla sua vita e dopo averlo caricato lo spinsi contro il muro.
Presi a tirare pugni sul suo ventre e sul suo viso fino a farlo cadere sul suolo.
Mi fiondai sulla sua arma e con tutta la forza che avevo nel corpo strinsi con entrambe le mani il manico della spada, combattendo anche contro il dolore al braccio sinistro, e la strappai di mano a quel mostro.
Prima che potesse rialzarsi, impugnai la spada con la mano destra e gliela conficcai nel petto.
Bastò un lieve sospiro a farmi capire che era morto.
Prima di proseguire nella mia ricerca, mi presi in mano il braccio sinistro e valutai la gravità della ferita.
Il taglio scendeva in profondità e solo toccarne i dintorni mi provocava delle fitte lancinanti.
Da essa uscivano fiotti di sangue caldo e intenso, forse troppo.
Strappai un pezzo di stoffa dall'indumento dell'orco e ci ricavai una benda per il braccio.
Strinsi più che potevo, resistendo all'impulso naturale di urlare al dolore.
Ora, armato, mi sentivo più sicuro ad aggirarmi in quel luogo.
Arrivai alla fonte della luce e vidi una porta che dava su una sala piuttosto grande e luminosa.
Non mi preoccupai della presenza di orchi perché si sarebbero già fatti vivi dopo il baccano generato dallo scontro con la creatura.
Aprii la porta e vidi la vera estensione della sala.
Era davvero enorme con spesse colonne di pietra che si estendevano per decine di metri in altezza.
Su ognuna di esse erano incise delle lettere, più che altro rune, diverse da quelle elfiche.
Erano più semplici, composte da tratti, linee.
La lingua dei nani.
Dopo anni passati ad un passo da Ereborn, la lingua nanica era ormai parte della mia cultura.
Non mi ci volle molto a capire in che luogo eravamo.
Le lettere componevano il nome di uno dei più magnifici luoghi mai stati creati dai nani, un luogo di leggende, di eroi, ma anche di terrore.
Moria, il reame più grande dei nani, si estendeva davanti ai miei occhi.

J.O.C.

***Spazio dell'autore***
Finalmente sono riuscito ad aggiornare, scusate la lunga attesa.
Fatemi sempre sapere cosa ne pensate.

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