Quel giorno il cielo era ricoperto da eccentriche e scarmigliate nuvole grigie. Adoravo particolarmente gli improvvisi acquazzoni di fine estate che si propagavano, quasi con prepotenza, sull'intera città.
L'odore che il cemento caldo rilasciava di fronte allo stretto contatto dell'acqua mi infondeva sollievo, e mi ricordava che anche quella stagione stava per concludersi.
Non ero mai stata il tipo di persona che soffriva di meteoropatia. Mi stancavo facilmente del prolungamento eccessivo delle varie condizioni atmosferiche, ed in parte il motivo per il quale prediligevo tutte e quattro le stagioni era proprio quello. Ritenevo che l'alternarsi di temperature diverse fosse fondamentale per poter vivere in completa armonia con sé stessi. Per questa ragione non mi ero affatto meravigliata del cattivo tempo a cui ero andata incontro; ero perfettamente consapevole di vivere in una città in cui l'atmosfera era totalmente mutevole ed altalenante. In fin dei conti, Londra era famosa per essere la città dell'eterna pioggia, dove il sole era solo un miraggio e il cielo grigio un'incredibile realtà incessante.Per l'intero tragitto mi ero convinta di vivere un sogno. Per certi versi mi era più facile credere che si trattasse di un'illusione, piuttosto che convincermi del contrario.
Da qualche anno mi ero costretta a vivere al fianco di una costante ombra di pessimismo e sentivo come se tutta quella felicità non mi appartenesse. Come se non me la meritassi.
Eh così, come era già accaduto in passato, anche quella volta stavo per essere risucchiata da un vortice funesto e patetico che non mi lasciava scampo: l'autocommiserazione.
Ed ero proprio diventata abile nell'assumermi non solo responsabilità che non erano mie, ma anche a credere che l'unica colpevole di tutto ciò che mi capitava fossi solo ed unicamente io.
Più gli altri mi accusavano di essere esagerata e sbagliata, più finivo per credere alle loro affermazioni. Era come ritrovarsi all'interno di un circolo vizioso che mi inghiottiva e sballottolava da un lato all'altro, impedendomi con ogni mezzo di raggiungere la via d'uscita.La gente era convinta di sapere, di conoscere tutto su di me. Credevano di poter sparare a zero sul mio conto, solo perché per troppo tempo avevo permesso loro di insabbiarmi, e forse anche di umiliarmi. Avevo lasciato che giudicassero e calpestassero le mie azioni in un momento in cui la mia fragilità era incrinata e cristallina, dove anche il tocco di un fiore non avrebbe fatto altro se non infliggermi ulteriore dolore. La gente credeva che l'essere cresciuta in una famiglia amorevole e totale come la mia, mi dava automaticamente il diritto di essere perfetta, di non commettere errori. Ed io ero tutto fuorché perfetta, e a me andava anche bene, ma non a loro.
Col tempo, grazie all'amore dei miei genitori e al loro completo supporto, avevo imparato a non dar credito alle parole degli altri. Ma c'era una voce insidiosa dentro di me che per troppo tempo avevo ignorato e che non riuscivo a spegnere: la mia coscienza. L'unica leale alleata in grado di spiattellarmi in faccia quella parte di verità a cui mi rifiutavo di credere. Poi era risaputo, che quando ci si trovava faccia a faccia con la propria coscienza non vi erano giustificazioni che potessero bastare. I troppi se che mi ostinavo a pronunciare venivano meccanicamente sostituiti dai ma, ed alla fine avevo anche smesso di obiettare.Sapevo bene di aver abbassato la guardia, mi ero concessa un pizzico di felicità in più in un momento in cui forse, non ne avevo bisogno. Le persone che mi amavano davano la colpa a loro, ed io, vigliaccamente, incolpavo me stessa. Martoriandomi e denigrandomi come se fossi il mio peggior nemico. Avevo imparato a mie spese che non tutto era come appariva. E la verità era che alla fine ero cambiata. Loro mi avevano cambiata. Per sempre.
Le ripetute raccomandazioni della portinaia mi distolsero dai cupi pensieri in cui mi ero ingarbugliata. Annuivo e sorridevo educatamente ad ogni sua parola per non sembrare scortese, anche se in realtà non avevo capito assolutamente nulla di ciò che mi stava dicendo. L'unica parte di conversazione che il mio cervello era riuscito a captare era forse l'informazione più importante di cui avrei avuto bisogno: Stanza 18, ala est, quinto piano.
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Lies and Hopes
Romance*IN REVISIONE* Vivere con il rimorso di aver potuto fare di più, era ciò che la tormentava maggiormente. Assumersi le colpe per i danni che gli altri le avevano causato era invece ciò che da tempo le riusciva meglio. Peccato e peccatore, vittima e...