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«Posso sapere perché sei sparita senza avvisarmi?» chiese Karen dall'altro capo del telefono. «Sono giorni che ti comporti in modo strano, non sei mai in casa ed eviti tutti, me inclusa, sei sicura di stare bene?» continuò imperterrita.

Alzai gli occhi in alto e accarezzai l'umida erbetta verde su cui mi ero comodamente sdraiata. Da un paio di settimane oramai, amavo visitare il Regent's Park, non capivo esattamente cosa mi spingesse ad andare in quel parco con così tanta frequenza. Inizialmente credevo che il richiamo degli alberi fosse la causa principale, anche se a lasciarmi senza fiato fu l'immensa distesa di manto verde, l'enorme lago popolato da anatre, le particolari viuzze dove era possibile incontrare colombe, volpi e scoiattoli, che stranamente, almeno loro, non avevano paura degli uomini. Non importava che io fossi triste o felice, in quel posto mi sentivo a casa, in quanto aveva saputo accogliermi proprio come i genitori fanno con i propri figli, proprio come questo parco fa con gli animali che vi abitano. La verità era che quel posto riusciva a darmi pace, a non farmi sentire sbagliata, era come se al di fuori del recinto non ci fosse una delle città più belle e grandi del mondo, un po' come se tutto il caos di questa meravigliosa città metropolitana rimanesse al di fuori, come se i miei problemi rimanessero al di fuori.

«Si, sto bene!» dissi dopo un attimo di sgomento, poi aggiunsi: «Scusami, ho avuto delle faccende da sbrigare», mentii.

In quell'istante tra noi due calò un attimo di silenzio, seguito successivamente dai sospiri delusi di Karen che per qualche ragione mi ferirono lasciandomi uno strano vuoto dentro. «Dimmi almeno che stasera verrai con noi», aggiunse infine, quasi esasperata.

«Certo, sarò lì tra poco.» risposi un attimo prima di agganciare la chiamata.

Con le mani intorpidite a causa dell'umidità, mi alzai di scatto per recarmi in direzione della palestra. Gli ultimi quattro giorni erano stati un vero e proprio inferno, non solo quella maledetta notizia mi aveva cambiato nuovamente la vita, ma era anche riuscita a distruggere quei piccoli miglioramenti che negli ultimi mesi mi ero sforzata di fare. Non era mai stato facile per me aprirmi alle persone, non ero brava a farmi conoscere per quella che ero veramente, né tantomeno a far restare nella mia vita quei pochi che riuscivano a tollerare il mio brutto carattere

Nell'ultimo periodo mi era capitato spesso di pensare alla me di qualche anno fa, a quell'illusa ragazzina felice che credeva all'amore e all'amicizia, alla stessa ragazzina che ha poi rivalutato tutto e tutti, persino sé stessa.

Dopo ciò che era successo, avevo imparato ad isolarmi anziché conversare, ad incolparmi invece di perdonarmi, a distruggermi anziché prendermi cura di quelle ferite ancora aperte che non mi davano pace. Ma cosa ancora più dolorosa, avevo imparato ad allontanare tutti, anziché chiedere aiuto.

I giorni successivi a quella notizia furono seguiti da interminabili giri di chiamate, di rassicurazioni, di speranze, ma anche da momenti di malinconia, di dolore, di rassegnazione e di incredibile frustrazione. Un dolore che preferivo tenere solamente per me, ma che prima o poi ero certa mi avrebbe consumata. Preferivo custodirlo anziche' raccontarlo, come se condividerlo con gli altri fosse una sorta di vergogna, un disonore che avevo già dato ai miei genitori ed una scena che non avrei mai voluto si ripetesse.

Il processo che avrebbe finalmente posto fine a tutto era stato programmato per il 10 gennaio prossimo, da qui fino a quel momento, Bloxam, sarebbe rimasto sotto stretta osservanza vigilata e Dio solo sapeva cosa sarebbe stato in grado di fare.

L'idea che avrebbe potuto rovinare la vita ad altre persone proprio come aveva fatto con la mia mi procurava angoscia, avere la consapevolezza di non poter fare nulla per salvare o avvisare altre vittime mi mandava fuori di testa, facendomi sentire pressoché inutile.

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