Capitolo 5

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"Scordati di uscire!"
Uno psichiatra piuttosto basso, con occhiali da vista, capelli quasi completamente bianchi, un naso un po' troppo grosso e due occhi piccoli e vispi si avvicina al mio letto tenendo in mano alcuni fogli senza guardarli. È la solita visita mattutina. Lo vedo spesso aggirarsi per i corridoi e non è la prima volta che ci parlo. Era venuto da me a gennaio, dopo quello che era successo a dicembre.
Lo psichiatra si chiama Fabbri, parla fuori dagli schemi, niente peli sulla lingua, niente false parole di commiserazione, è diretto, forse troppo. Parlare con lui è una sfida a chi è più determinato.
La classica persona che o si odia o si ama, niente vie di mezzo. Io già non lo sopporto.
"Ma sto meglio, sono pronta per tornare a casa, non ne posso più di stare qui."
"Vuoi prendermi per il culo? Tu NON stai meglio. Guardati, sei ridotta una merda, non mangi neanche."
"Quindi se ricomincio a mangiare posso uscire?"
"Assolutamente no."
"E allora che cazzo devo fare?" Sto perdendo la pazienza, i suoi modi bruschi mi innervosiscono.
"Potrò prendere in considerazione l'idea di farti uscire quando ti vedrò vivere. Ovviamente quando mangerai, ma non solo. Esci da questa camera, parla, ridi, fai amicizia con gli altri pazienti. Non pensare a quando tornerai a casa, assapora questa esperienza, vivila fino in fondo. Voglio vederti veramente felice e non con un falso sorriso per fare contenti i medici, conosco la differenza quindi non ti illudere di potermi fregare. Mandami anche a quel paese ma reagisci."
Vorrei veramente mandarlo a quel paese ma mi limito a rispondere "ok".
"Ok?" Ripete, alzando troppo la voce. "Ti ho detto di reagire!"
"Cosa devo fare? Prenderla a pugni?"
"Vuoi prendermi a pugni? Dai sono qui" si avvicina a me allargando le braccia.
"Basta." Dico abbassando lo sguardo.
Lui mi punta un dito sulla spalla.
"Devi tirare fuori la forza che hai dentro, so che c'è."

Sono le 14.00 quando arriva James. Mi saluta imbarazzato con un gesto della mano. Indossa un paio di Jeans, un maglione azzurro con sopra un giubbotto nero di pelle. Capelli castani e occhi azzurri.
"Avete anche le telecamere?" Domanda indicando con la testa quella nell'angolo del soffitto della mia camera.
"Già, dobbiamo essere sempre controllati." Rispondo con un sorriso.
"Allora... ti va di farmi da guida e mostrarmi la struttura?"
Cominciamo a passeggiare per i tristi corridoi parlando del più e del meno, mi gira la testa, sono troppo debole per camminare ma non voglio dirlo. Dopo cinque minuti abbiamo già girato praticamente tutto e decidiamo di sederci un po' nel giardino.
Mi chiede se mi trattano bene, come sono gli altri pazienti e il personale, allora io gli racconto di Sara, di Davide, gli parlo del fatto che non possiamo tenere nessun oggetto che possa, anche lontanamente, sembrare pericoloso. Niente fili di nessun tipo, niente lacci delle scarpe, cinture, lamette, pinzette ecc... poi ridendo gli dico che sono disperata perché non posso farmi la mia amata piastra. Il phon, invece, si può usare, ma solo in una stanza privata accompagnato da un infermiere, il quale rimane a guardarti finché non hai finito.
Parliamo mantenendo le distanze e senza azzardare un discorso riguardo noi, la nostra storia.
Dopo un'ora un' infermiera ci chiama annunciando che l'orario di visita e terminato. Mi saluta promettendo di scrivermi e di tornare.

Passo tutto il pomeriggio nel letto a pensare a James.
Verso sera arriva Davide. Si mostra sempre felice e con un entusiasmo contagioso.
Gli racconto della visita inaspettata di James precisando che mi ha fatto stare bene.
"Se ti aiuta a stare meglio va bene ma non perdere il controllo della situazione. Non illuderti e rimani concentrata su te stessa."
Ad un certo punto tira fuori, dalla sua borsa da lavoro, delle pizzette chiuse in un vassoio e le mette sul letto.
"Sono passato a comprarle prima di venire qui. Ti va di mangiarle con me?"
Sento il cuore in gola e una forte sensazione di nausea crescere, anche l'agitazione e l'ansia aumentano improvvisamente.
"No, mi dispiace." Rispondo con lo sguardo rivolto verso il vuoto.
"Provaci, solo una. Mangio con te. Siamo soli nella stanza, rilassati."
"Ho detto di no." Questa volta sono più decisa e lo guardo negli occhi con cattiveria e sfida.
"Devi provarci." Anche il suo tono di voce diventa più deciso e fermo.
Lo guardo, no, non ci riesco a mangiare, non posso farlo, mi sento scoppiare. Perdo la pazienza e scatto in piedi inferocita.
"Ma che cazzo vuoi? Perché non mi lasci in pace? Perché non te ne vai?" Urlo in preda alla rabbia.
"Io non me ne vado. Sono qui per aiutarti." La sua voce rimane calma, è seduto davanti a me. Non ci vedo più, sento il cuore battere a mille, l'adrenalina scorrere in tutto il corpo, non riesco più a controllarmi.
"Vaffanculo! Vattene!" Urlo ancora più forte e lo prendo violentemente per il collo cercando di spingerlo via dalla sedia. Lui si alza liberandosi dalla mia presa mentre io continuo a spingerlo e gridargli di andarsene. Mi blocca stringendomi i polsi e facendomi restare con le braccia inmobilizzate davanti al viso.
"Ti ho detto che non me ne vado. Puoi insistere quanto vuoi ma non resterò a guardare mentre ti lasci morire."
"Perché? Perché fai tutto questo?" Chiedo con voce leggermente più calma.
"È il mio lavoro."
"Dovremmo vederci un'ora a settimana. Perché sei sempre qui, mi compri da mangiare..."
"Io..." risponde mentre allenta la presa sui miei polsi fino a liberarli. "Ci tengo a te." Confessa un po' incerto abbassando lo sguardo.
"Voglio aiutarti. Sei una ragazza giovane, bella e intelligente non dovresti essere qui dentro."
"Sono dove devo stare." Rispondo cercando di nascondere l'imbarazzo per i complimenti.
"Ma puoi guarire, so che puoi farcela. Hai una forza incredibile dentro... devi solo sfruttarla nel modo giusto." Mi sorride facendo chiaro riferimento alla mia sfuriata appena conclusa.
"Non so come fare."
"Sono qui apposta."
Ci mettiamo di nuovo seduti, lui sulla sedia e io sul letto di fronte a lui.
"Devi mangiare, puoi farcela. Io ho fiducia in te." Prende una pizzetta per sé e un' altra la allunga a me, l' afferro guardandola come se fosse il mio peggior nemico.
Sto per piangere, sono esausta e la paura è troppo forte. Rimetto la pizzetta-nemico sul vassoio e le lacrime cominciano a scendere come tante goccioline di pioggia.
"Perché è così difficile?" Chiedo tra i singhiozzi con i gomiti poggiati sulle cosce e le mani sul volto.
"Il primo boccone è quello più difficile, so che è dura ma non devi arrenderti. Sono qui per te."
Alzo lo sguardo verso di lui, poggiando le mani sulle cosce, conficcando le unghie sulla pelle fino a farmi male.
"Puoi farcela, sei forte." Mi ripete Davide posando la sua mano sulla mia in un gesto dolce e intimo, accarezzandomi con il pollice. Solo per pochi istanti, per poi toglierla di scatto come se si fosse scottato, distogliendo lo sguardo incredulo e imbarazzato per essersi lasciato andare ad un gesto simile con una paziente in ospedale.
"Dai, riproviamoci." Mi sorride allungandomi di nuovo la pizzetta-nemico e addentando la sua. Guardo prima lui mangiarne metà poi abbasso lo sguardo su quella nella mia mano. Batticuore, ansia, paura. Chiudo gli occhi poi dó un morso, mastico lentamente e infine deglutisco. Non sento sapore ma ci sono riuscita. Ho sconfitto questa paura, ho abbattuto questo blocco. Io sono più forte.

Il sole spentoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora