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Sonia

Guardai l'orologio, alzando lo sguardo verso la parete. Un chiodo arrugginito garantiva il sostegno dell'oggetto, tondo e ticchettante, attraverso un minuscolo gancio. La cornice celeste in cui era racchiuso il quadrante era in plastica, della medesima tonalità delle due lancette. Una, giacente sul numero tre. L'altra, più lunga, sul numero due. Erano le tre e dieci, avevo finito in anticipo.

Ero riuscita a dedicare meno di due ore alle faccende domestiche, facendo una pausa all'una e mezza per un veloce pranzo a base di crudité condite con aceto balsamico. L'olio proprio non faceva per me.
Ma non avevo totalmente terminato: avevo ancora alcune cose da sbrigare, prima di uscire. Per esempio, dovevo prepararmi.

Di solito non impiegavo molto tempo per vestirmi o mettermi un po' di lucidalabbra o a pettinarmi, ma per quell'occasione volevo apparire il più curata possibile. Poi dovevo anche dedicarmi alla scrittura di una lettera. L'avrei lasciata al mio ragazzo chiedendogli di leggerla solamente il giorno successivo alla mia consegna, quando sarei ormai arrivata a destinazione, a milleseicento chilometri da lui.
Questo paio di azioni mi portarono via un'ora e mezza, quasi quanto le faccende domestiche. Finii, cosí, per uscire di casa poco prima delle cinque.

"Torna non più tardi delle sei e mezza. Stasera si cena presto, alle nove dobbiamo essere in macchina per andare a Milano. È da lì che partirà il nostro aereo" mi disse con tono imperturbabile mia madre. Era una donna molto precisa ed esigeva la puntualità anche da parte delle persone che la circondavano, dalla sottoscritta compresa.
"Ok, non tarderò" mi limitai a risponderle senza credere io stessa alle mie parole, usando il tempo futuro per rendere meno certo il mio ritorno in orario. Sarebbe stato il mio primo e ultimo ritardo.

Vestita e pettinata, afferrai il cellulare dalla scrivania, lucidissima per la pulizia minuziosa a cui l'avevo sottoposta un'ora prima, e la lettera, chiusa in una busta verde acqua. Uscii di casa, e mi incamminai a passo svelto.

Mentre passeggiavo misi la canzone di me e Daniel, quella con cui ci fidanzammo. Era sempre la stessa emozione, quella che provavo nell'ascoltarla, la medesima di un anno prima. Se non fosse stato per le persone che incontravo lungo la mia marcia mi sarei messa a canticchiarla allegramente ad alta voce, mimando con le mani le poche parole di inglese che sapevo. In fondo lo studiavo da soli due anni.

"Sonia! Sonia!". Sentii urlare il mio nome, ormai nei pressi della bellissima casa del mio ragazzo. Avrei sempre voluto vivere in una villetta come lui. Ma le condizioni economiche dei miei, in confronto a quelle dei suoi, erano piuttosto differenti. Probabilmente María Inés guadagnava più di mia madre e mio padre messi assieme.

"Sonia!". Spostai lo sguardo in direzione del suono, il quale parve provenire dall'alto. Sollevando gli occhi, vidi Daniel alla finestra della soffitta sporgersi e salutarmi con la mano. Ricambiai il gesto, sorridendo.

Dirigendomi verso il portone di casa sua, accelerai notevolmente il passo con cui, lentamente, mi ero concessa una passeggiata. Ero ormai non molto distante, e il portone venne aperto prima che potessi bussare.

"Ciao, amore!" esordì Daniel, con tono accogliente. Era chiaramente contento di vedermi.
"Hey, Dane". Ci baciammo sull'uscio, io lievemente sulle punte per contrastare la nostra differenza d'altezza. Lui ragazzo, io ragazza. C'era da aspettarselo. Ma era anche l'età a influenzare la cosa: ci passavamo due anni.

"Come stai?" gli domandai sorridendo.
"Triste... sono tanto triste ". Piegó il labbro inferiore verso il basso.
"Non dirlo a me". Mi accarezzò i capelli e mentre arrotolò una ciocca di capelli attorno al suo dito, Vanesa comparve all'improvviso accanto a noi, con un borsone dal tessuto corvino a righe grigie, grande quasi quanto lei.

"E tu dove stai andando?" le chiesi, sporgendomi per baciarla sulla guancia.
"Sto andando con una mia compagna di classe e sua zia in palestra" disse, facendo seguire la dichiarazione appena fatta da un lieve ansimare. La borsa doveva pesare davvero tanto sulle sue esili spalle.
" E te ne vai senza salutare!".
"No, no. Ora ti saluto. Poso solo la borsa qui, altrimenti la dimentico". Daniel, voltatosi a guardarla, rise scuotendo il capo.
"Ma se io fossi arrivata un'ora dopo cosa avresti fatto, eh?" feci finta di essermi offesa, incrociando le braccia.
"Ma se sono qua" contestò.
"Dai, su, salutiamoci per bene, prima che tu vada taaaanto di fretta a sollevare pesi!" scherzai.
Ci abbracciammo.
"Ti voglio bene, So' ".
"Anche io". Le baciai il lobo dell'orecchio destro, che le fece sollevare una spalla per il brivido causato.
"Non sto mica andando in guerra comunque!".
"Lo so, lo so" ribattè lei.
"Perché tutte queste frecciatine?" domandò Daniel.
"Tra sorelle capita" dissi, sorridendole e scambiandole uno sguardo d'intesa.
Sentii, poi, un telefono squillare e irrompere nel silenzio del giardino .

"Vanesa, è il tuo?" le domandai.
"Sì. È la zia della mia amica. Vado a posare il borsone da lei!".
"D'accordo, vai pure" dissi.
"Tornerai, vero?" le chiesi poi, per assicurarmi di rivederla.
"Certo. Tornerò". Sorrise. La vidi allontanarsi corricchiando con il borsone in spalla, il quale la appesantiva parecchio, impedendole di camminare in posizione completamente eretta e obbligandola a piegarsi leggermente di lato. Faceva piuttosto ridere, ma non in senso offensivo. Più che altro trasmetteva tenerezza, con quell'affare gigante trasportato sul suo braccio mingherlino.

Sospirai, poi sorrisi e mi voltai verso Daniel quando ormai la mia amica aveva girato l'angolo, scomparendo dalla visuale.

"Alla fine gliel'hai detto" dissi, entrando in casa seguita dal mio ragazzo.
"Sì" confessò.
"Mi dispiaceva che non potesse salutarti".
"Hai fatto bene".  Daniel richiuse la porta dietro di sé.
Silenzio. Ci guardammo, poi abbassai lo sguardo leccandomi le labbra, nervosamente. Sapevo cosa avrei dovuto fare in quel momento.

"Questa è per te" dissi, tirando fuori dalla mia borsetta la lettera, dal colore sgargiante.

"Per me?".
"Sì". Fece per aprirla, ma lo bloccai.
"No. Leggila domani, quando saró arrivata".
"Perché non ora?" chiese, deluso.
"Perché adesso sono qui con te. Non serve che tu la apra oggi". Sulle sue labbra comparve un sorriso che fece sorridere pure me.
"Grazie" sussurrò.
"Di nulla".
"Anche io ho qualcosa per te" annunciò.
"Sì?".
"Aspetta, torno subito". Lo vidi fiondarsi in camera sua per poi tornare pochi secondi dopo davanti a me con una bella confezione dalla tonalità perlacea.
"Ecco qui".
"Oh, che bel pacchetto. Scommetto che l'hai fatto tu".
"Sí, hai indovinato". Risi, arrossendo.

Era di forma rettangolare, incartato con una carta monocolore.
"Posso aprirlo?" domandai per essere sicura che fosse per me.
"Se ti va" disse senza darmi una risposta concreta. Era ovvio fosse affermativo. Scoppiammo a ridere.

Tirai il fiocchetto, per poterlo togliere senza dover ricorrere all'uso delle forbici. Tolsi il nastro adesivo in modo da non strappare la carta ed estrassi il regalo, contenuto in una scatolina scura che aprii sollevando il coperchio.

"Oh, che meraviglia, questa collana con le nostre iniziali. È bellissima" dissi, continuando a osservarla. Mi brillavano gli occhi da quanto quei due piccoli simboli luccicanti fossero sfavillanti.
"Sono contento ti piaccia".
"Daniel, non so se posso accett...". Venni bloccata. Con la sua mano chiuse la mia, nel cui palmo tenevo stretta la collana.
"È per te".
"Io... io non ti ho regalato nulla".
"Sì, mi hai regalato una splendida storia d'amore". Sorrisi. Quant'era carino Daniel. Nonostante spesso mi fossi lamentata della mia vita, della mia famiglia, non avrei potuto dire lo stesso sull'amore. Ero stata baciata dalla fortuna. E poco dopo, anche da Daniel, che mi diede un abbraccio dolcissimo.

"Mi metteresti la collana?" domandai, distogliendo lo sguardo dal prezioso dono che mi era stato porto giusto per rivolgere gli occhi a quelli del mio ragazzo.
"Certamente". Mi spostò gentilmente i capelli di lato. Sentii la catenina fredda appoggiarsi sul mio collo, scivolare sulle clavicole. Sfiorai con le dita il ciondolo, diviso in due. Una D e una S.

"Ti amo" mi sussurrò Daniel, poco dietro di me.
"Anche io. E ricorda, questo non è un addio. È un Arrivederci".

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