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Sonia

Ferragosto. Era ormai trascorso, a velocitá fulminea, un mese e mezzo dalla mia partenza. Ben quarantacinque giorni si erano susseguiti fra dí e notte senza arrestarsi. Erano passati talmente in fretta che nemmeno ero riuscita ad accorgermene,. Tutto sommato, la nuova vita non mi annoiava.

I miei genitori avevano trovato degli impieghi momentanei e part time. Spesso erano fuori casa, per cui io ero molto libera di fare ciò che volevo. Avevo già fatto molte amicizie, avevo conosciuto circa una decina di ragazzi della mia età, e conoscevo a memoria tutte le vie della cittadina, di poche migliaia di abitanti.
Passavo quasi ogni pomeriggio con loro i quali, durante quel mese e mezzo, mi avevano mostrato ogni parte del paesino: la chiesa, il lago con i cigni, la pasticceria dove preparavano il sernik.
Si andava spesso insieme a Varsavia. Era vicina, a poco più di mezz'ora in pullman. Era una città che a me piaceva molto, soprattutto la mattina. Avevo preso ormai l'abitudine di svegliarmi presto, prima delle otto, quando i miei genitori varcavano la soglia di casa per andare in ufficio. Iniziavano alle nove, ma partivano sempre con largo anticipo per non incorrere nel traffico.

Io, intanto, a quell'ora, aprivo appena gli occhi, felice di iniziare una nuova giornata, che avrei interamente passato in compagnia di amici. A Torino ero solita rimanere con i miei genitori in casa a svolgere delle faccende domestiche con mia madre o a fare il solito tour dei supermercati con mio padre.

Lí, in Polonia, ogni singolo giorno era un giorno ben vissuto. Alle otto e mezza mi preparavo e, senza mettermi d'accordo con gli altri, siccome l'appuntamento del martedì e del venerdì era fisso, uscivo con i miei amici per tutta la mattinata, direzione Varsavia. Pranzavamo assieme e al pomeriggio andavamo a fare compere o ritornavamo per  giocare a calcetto in paese.

Era una bella vita, non invidiavo poi così tanto quella di Torino dove gli unici amici che frequentavo si potevano contare sulle dita di una mano. Mia madre aveva appena perso il lavoro, per cui, prima di partire e ricominciare, era sempre a casa a controllare cosa facessi e quando uscissi. In Polonia, invece, no. Potevo fare quello che mi pareva.

A proposito di amici di Torino, non avevo più potuto sentire Daniel. Avevo cambiato il numero di telefono, scordando di comunicargli quello nuovo. Oltretutto non avevo più alcun numero italiano in rubrica. Per fortuna il suo indirizzo di casa lo ricordavo a memorie, e a fine luglio gli avevo mandato una cartolina in una busta, assieme ad un souvenir, approfittando per scrivergli il mio nuovo recapito telefonico. Ma probabilmente non era ancora arrivato, perché lui non si era ancora fatto vivo.

La lentezza e la mancata precisione delle poste faceva esasperare non solo me, ma anche mio padre, il quale aveva inviato dei documenti importanti al suo ex collega di lavoro che abitava a Cuneo.
Poco male. In qualche modo sarei riuscita comunque a sentirlo per raccontargli il più e il meno delle mie giornate. In caso contrario, avrei iniziato a scrivere un diario dove avrei annotato ogni cosa importante che mi fosse successa e la prima volta che i miei mi avessero dato la possibilità di tornare in Italia, gliel'avrei consegnato. In tal modo avrebbe saputo cosa mi fosse accaduto in quel lungo periodo.
Oltretutto era un modo, per me, di intraprendere la carriera di scrittrice. L'idea mi era venuta dalla sorella di Hania, la mia migliore amica, che mi raccontó di starsi laureando in letteratura. La sua più grande passione era la scrittura e aveva già pubblicato un libro sotto forma di diario all'età di diciannove anni. Per me fu una grande ispirazione.

Daniel

Metà mese. Il giorno precedente era stato il mio primo anno di fidanzamento. Quanto fu triste passarlo da solo senza sentire la voce di Sonia o vedere il suo sorriso.
Era così strano, per me, non averla al mio fianco. L'anno precedente, per il nostro primo mese di fidanzamento, organizzammo una festa, i miei genitori ci portarono in giornata al mare. Fu un pomeriggio indimenticabile. In serata facemmo anche un falò e un bagno. Ci divertimmo un sacco e il dover pensare che quell'anno non sarebbe accaduto nulla di tutto ciò, nemmeno una passeggiata in centro, mi fece rattristare. Piano piano cominciavo a capire quanto la distanza uccidesse... E non si trattava di dieci, venti, cento chilometri. Più di mille seicento.
Per fortuna, grazie alla danza, riuscivo in parte a colmare il vuoto che l'amore che provavo per lei mi causava. Era una sorta di distrazione, ma non riusciva comunque a sostituire la mancanza della sua persona.

A proposito di danza, disgraziatamente fui inserito nello stesso gruppo di Fabio. Avevo soltanto una probabilità su tre che ciò accadesse. Ma l'estate del duemilaquattordici, per me, non fu tutta quadrifogli e coccinelle.

Per il resto, il gruppo era fantastico, legai in particolar modo con due ragazzi: Tommaso, della mia età, suo fratello Filippo, coetaneo di Vanesa. Diventammo pressochè inseparabili, specie con il primo. Io e lui contro Fabio e il suo gruppetto. Anche per loro si trattava del primo anno, ma si rivelarono da subito molto portati per quell'attività. Anche Fabio aveva talento. Purtroppo, però, quasi nessuno reggeva il suo carattere litigioso. Aveva la sua piccola banda di tre persone a sostenere la sua sfacciataggine e la sua lunaticità, che spesso davano un'idea sbagliata di lui. Ma secondo me, non era una persona spregievole: ambigua, difficile da comprendere, lo era sicuramente.
Alla fine si seppe qualcosa sul suo orientamento sessuale: sì, era gay. Ma della vita sentimentale non si sapeva nulla. Era tabù. Forse solo i suoi amici più stretti sapevano se fosse fidanzato o se gli piacesse qualcuno. E per tale motivo, proprio perché lui non raccontava mai nulla a nessuno, veniva stuzzicato con commenti non tra i più decenti, usati più che altro per provocarlo.

Dopo la lezione di danza, nello spogliatoio, era sempre il delirio. Sembrava il set di una commedia: il gruppo era praticamente diviso in tre: una parte, composta da cinque persone, a difendere Fabio. Un' altra, composta da otto persone, sempre pronta a lanciare qualche frecciatina. La terza parte era invece formata da quattro persone, quelle che di solito se ne stavano in disparte ad osservare la scena e a ridacchiare per la comicità della situazione: io, Tommaso, Filippo e un altro ragazzo, che non si esponeva mai. Era sempre al suo posto, non apriva mai bocca e raramente lo si sentiva parlare, soltanto quando Annabella lo interpellava per fargli contare i passi. Altrimenti non si sarebbe mai nemmeno mai sentita la sua voce.

Tutto sommato, come gruppo, nonostante non fosse proprio perfetto, non si poteva dire non fosse completo.
C'era il taciturno, il provocatorio, il manesco, il lunatico, il logorroico, il buffone...
Solo di un ragazzo non ero riuscito a capire l'idendità: Andrea.

Sulla lista degli allievi di Annabella vi era anche lui, che però non si era mai presentato, nonostante le lezioni trascorse ammontassero ormai a otto. Si era iscritto al corso di danza per il primo anno, senza che però nessuno mai lo avesse incontrato, nè in palestra, nè all'uscita. Chissà se era lo stesso Andrea di cui parlava Fabio.

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