III

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III

Mi voltai alla ricerca della fonte di quel suono e subito i miei occhi individuarono un uomo davanti al bancone. Era sulla quarantina, come dimostravano i radi capelli, ancora neri, che aveva in testa. Era ben vestito e il suo abbigliamento e la valigetta che teneva con la mano destra mi fecero subito capire che fosse un uomo d'affari.

«Come è possibile che non ci siano più dolci?!», berciò riferito al cassiere, bianco come un lenzuolo per la reazione dell'uomo.

«Ehm... beh ecco, la signorina prima di lei ha preso l'ultimo...»
L'uomo si voltò e fissò la ragazza che aveva preso l'ultima tortina. Aveva la carnagione molto chiara e teneva i liscissimi capelli biondi legati in un'alta coda di cavallo. Era giovane, avrà avuto all'incirca la mia età, e teneva le mani sulle spalle di un bambino che le somigliava molto. Il tizio scorbutico sorrise:
«Allora la signorina non avrà alcun problema a cedermi la sua tortina...»

La ragazza deglutì a vuoto e rispose con voce fievole:
«Vede signore, oggi mio fratello compie gli anni e quella è la sua torta preferit...»

«Ma come ti permetti!», gridò l'uomo visibilmente infastidito, «Una Beta che nega a un autoctono ciò che gli spetta di diritto! Se voi sporchi immigrati imparaste qual è il vostro posto, il mondo la smetterebbe di andare a puttane!»

La ragazza, se possibile, diventò ancora più pallida. Il bambino aveva iniziato a piangere, scosso dai singhiozzi.
«Ora, », continuò l'uomo con una inquietante voce calma, «dammi quella tortina»

La giovane donna non se lo fece più ripetere e gli porse il sacchetto. Lui l'afferrò, sorrise e aggiunse maligno:
«Visto l'affronto che mi hai arrecato, sono sicuro che non avrai problemi a farti perdonare pagandomi il dolce. Buona giornata»
Detto questo si fece strada tra la folla silenziosa e uscì dal locale.

Sospirai a mezza voce. Episodi di razzismo nei confronti di coloro che non erano nativi americani erano sempre più comuni in quegli ultimi tempi.

La ragazza si inginocchiò per essere all'altezza del fratello:
«Mi dispiace Oskar, purtroppo non ho più soldi per prenderti altro...»
Il bambino le sorrise triste
«Non importa...»

Fu troppo per i miei occhi. Non potevo fare finta di nulla.
Mi avvicinai ai due:
«Mi dispiace molto per quello che vi è successo», mormorai.
La ragazza mi rivolse un sorriso mesto:
«Non tutti gli autoctoni sono tolleranti con noi Beta... Ma non per questo dobbiamo farci rovinare la giornata, giusto?»
Annuii, perfettamente d'accordo.

«Sentite... », porsi il dolce, «questo è quello che ho preso prima... gli ho dato solo un morso e posso assicurarvi che non ho nessuna malattia.», "A parte sentire le voci", aggiunsi tra me e me, «Prendetelo. Sicuramente è meglio di nulla»

Il volto del bambino si illuminò di gioia, mentre la ragazza mi guardava stupita:
«Sicura? Voglio dire...»
«Non ti preoccupare», la interruppi in imbarazzo per la sua gratitudine, «ho già pranzato.»
«Grazie», mi disse sorridendo mentre prendeva il sacchetto che le stavo porgendo. Le sorrisi di rimando:
«Ora scusatemi, devo proprio scappare»
Schizzai fuori dal locale più velocemente che potei. L'esagerata gratitudine mi metteva a disagio. Dopotutto non avevo fatto nulla di che.

Guardai l'ora. Avevo ancora quattro ore prima che l'orario di visita all'ospedale terminasse.

Mi avviai verso la mia meta, rischiando di essere travolta da un ragazzo che andava a tutta velocità a bordo di uno skateboard volante.

***

L'ospedale Queen Kristine era un edificio più largo che alto, dal colore avorio. Fu il primo ospedale del New American Empire e fu dedicato alla moglie del primo Imperatore, Kristine, la quale fu famosa nella storia per essere stata incredibilmente magnanima. All'interno era un labirinto, ma dopo un paio di settimane ero riuscita ad imparare il necessario per orientarmi.

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