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Perché siamo destinati a soffrire?
Se siamo stati creati da Dio a sua immagine e somiglianza, allora perché ci ha mandato in questo mondo imperfetti? L'essere umano è una creatura dalla struttura complessa, formata da cellule, muscoli, organi che funzionando in un'unico sistema dando  vita all'uomo, in tutta la sua complessità. Così sofisticato, intelligente, forte ma allo stesso fragile, quella  stessa fragilità è data dall'insieme  altrettanto articolato  delle nostre emozioni. La vita di ogni uomo è una lunga corsa ad ostacoli e per tutti è sempre la stessa: nasciamo, ogni giorno ed ogni minuto cresciamo ed infine il destino, che attende tutti noi è la morte. È durante questa corsa, però, che ognuno di noi sviluppa la sua vita : creiamo dei legami di amicizia con i nostri compagni, una famiglia; viviamo momenti di gioia, di spensierata felicità, ma non solo. Tutti vorrebbero vivere una vita senza trovare ostacoli lungo il cammino, ma non funziona così: la solitudine, la tristezza, il dolore sono prove che ognuno di noi prima o poi deve affrontare, cercando di superarle e proseguire. Non tutti però hanno la forza di andare avanti, di continuare a lottare per se stessi e per le persone intorno a loro. Molti affermano, con grande sicurezza, che la sofferenza fortifica lo spirito ed in parte sono d'accordo con loro, ma prima di poter diventare forte, il dolore bisogna affrontarlo e sconfiggerlo e quello non è mai facile. La sofferenza si annida nel nostro cuore, scaturendo nel nostro petto come una bestia indomabile ed incontenibile a cui si può solo resistere il più a lungo possibile. Se siamo in grado di resistere pian piano la sofferenza si attenuerà, ma nel caso in cui il nostro spirito non sia abbastanza forte da poterla sopportare, il nostro cuore verrà schiacciato dall'oscurità dalla nostra anima, perdendosi senza fare mai più fare ritorno. L'orgoglio è una caratteristica che da sempre fa parte di noi, quando stiamo male mentiamo alle persone che amiamo mostrandoci forti ai loro occhi, perché non vogliamo che vedano le nostre debolezze. In questo modo però il dolore aumenta e per evitare di esibirlo lo rinchiudiamo, come in una gabbia, nella profondità del nostro essere, cercando di affrontare quella prova da soli. Invece di provare a condividere quel sentimento, ad alleviare quel peso, lo chiudiamo lasciandolo libero di divorarci, inesorabilmente, dall'interno.
Sarebbe stato così anche per me se in quella fredda mattina londinese non avessi incontrato lui, l'uomo che avrebbe aperto le porte di quella gabbia sostenendo il mio dolore, aiutandomi a rialzare la testa verso la luce e lasciando che i raggi della felicità inondassero ogni fibra del mio corpo.

Dal finestrino della macchina, le goccioline di pioggia scendevano lungo il vetro. La mia testa pesante era appoggiata a quella superficie che al tatto era fredda, gelida. Fuori l'intero paesaggio era ricoperto da un manto fitto di nebbia, che mi impediva di vederci attraverso, oscurandomi la vista di ciò che mi circondava. Non che avesse molta importanza per me sapere cosa vi fosse là fuori, non avevo nessun interesse nell'osservare la noiosa vita di tutti quei paesini che passavamo con la macchina, guardavo fuori semplicemente per pura noia. Davanti i miei genitori parlavano tra loro e le loro chiacchiere apparivano lontane al mio udito. In varie occasioni avevano provato a farmi partecipare alla loro conversazione, ma da parte mia non c'era mai stato quell'approccio positivo che indicava il mio volere intrattenermi con loro. Volevo solo restare in silenzio, immersa nei miei pensieri, a guardare quel manto di nebbia. Non capivo nemmeno perché avessero tutto quel l'interesse nel parlare del tempo < Ogni giorno pioggia, non ne posso più! > diceva mia madre. Io non trovavo così malvagio quel tempo, anzi mi faceva sentire rilassata. Mi piaceva passare le mie giornate davanti alla finestra ad osservare la pioggia scendere, inesorabile ed inarrestabile, come il destino. Le giornate piovose, in qualche modo, avevano il potere di rendere tristi e malinconici gli umori di ogni uomo, privandoli della voglia di fare qualsiasi cosa: per quello l'adoravo. Grazie ad essa ogni persona, intorno a me, provava ciò che io sentivo ogni giorno della mia vita: tristezza, solitudine, malinconia. Nonostante l'incondizionato amore della mia famiglia, io mi sentivo vuota, sola,  incapace di provare affetto verso chiunque, persino verso i miei cari. Ovviamente non avevo nemmeno mai provato il vero amore. Quel sentimento che ti fa battere il cuore all'impazzata, che accende quella fiammo nel petto e che ti fa sentire vivo e vero. Un'amore che consumi il tuo spirito, facendolo ardere come un focolare sempre acceso. Io non mi ero mai sentita così, certo anche il mio cuore era colmo, ma non di amore ma bensì di un'insopportabile dolore, che ogni giorno dilaniava la mia anima. Il mio vero io era rinchiuso nelle profondità del mio essere, immerso in una tetra oscurità, senza spiragli di luce ed inaccessibile a chiunque, persino da me stessa. Forse era a causa di quel mio modo strano di essere che non avevo mai avuto molti amici e magari era anche quello il motivo per cui i miei mi stavano mandano a Londra < Vivere insieme alla tua amica per un' anno, sole in una grande città, vi farà bene > avevano detto i miei < Imparerai ad assumerti le tue responsabilità, lavorando per te stessa e vedrai cosa vuol dire essere adulti >.
Avevo 20 e nella mia vita avevo avuto poche esperienze lavorative, non perché non avessi la voglia di lavorare, ma perché non c'è ne era mai stata l'opportunità. Quando i miei mi dissero che andarmene dal mio paese mi avrebbe fatto bene, non solo perché avrei ampliato la mia esperienza nel campo del lavoro ma avrei anche migliorato la mia capacità di relazionarmi con gli altri, non avevo avuto molta scelta. Dopo avermi fatto un lungo discorso sulle responsabilità della vita, non mi avevano lasciato nemmeno il tempo di rispondere, che avevano già organizzato ogni cosa: il viaggio, la casa, un posto di lavoro, il mio coinquilino. Avendo solo un'unica scelta non potevo rifiutare < vedrai sarà divertente e ti farai un sacco di amici nuovi >.
Non fraintendete, l'idea di vivere a Londra non mi dispiaceva affatto, ma sapevo che non avrebbe cambiato le cose, anche se il paese era diverso io rimanevo la stessa, non avrebbe fatto alcuna differenza, o così credevo.

Dopo un'ora e mezza di macchina, eravamo finalmente arrivati  in aeroporto. La nebbia pian piano si era diradata e la pioggerella che mi aveva accompagnato per tutto il viaggio, ormai aveva smesso. In cielo era rimasta solo qualche nuvola grigia a coprire il sole, da cui filtravano però alcuni fasci di luce. Mio padre lasciò me e mia madre davanti all'entrata, insieme ai bagagli, per poi andare a cercare un parcheggio. Non avevo voglia di aspettarlo la fuori al freddo quindi afferrai la maniglia della valigia e con passo svelto mi diressi verso l'entrata. Mia madre dietro di me tentava di tener il passo. Dalla tasca presi il telefono per controllare l'ora e vidi un messaggio della mia amica Alice, diceva < Io sono già arrivata ti aspetto davanti al bar li degli imbarchi >.
Nonostante ci fossimo conosciute solo all'ultimo anno di liceo, tra noi si era instaurato un profondo legame di amicizia, forse l'unica vera amica che avevo. Era l'unica persona con cui potevo essere me stessa, lei mi faceva ridere, riusciva a farmi provare qualcosa di vero e reale anche solo standomi vicina, qualcosa che forse avrei potuto chiamare veramente affetto. Mia madre era riuscita a convincerla ad accompagnarmi in quel viaggio a Londra, dicendole che avrebbe pensato a tutto lei è che ci avrebbe trovato un lavoro. Al suono di quella parola Alice aveva accettato subito, aveva bisogno di lavorare per poter sostenere economicamente la sua famiglia, non le importava in quale paese fosse.
Camminando veloce verso il gate la vidi: era appoggiata al muro, con la valigia a fianco a se. I suoi lunghi capelli bruni, lisci, le ricadevano sulle spalle coprendo gli auricolari all'orecchie. Il suo modo di vestire, con qui jeans strappati e la maglietta tinta a mano di vari colori, mi aveva sempre affascinato, l'ammiravo molto il suo stile. Non si accorse della mia presenza finché non le fui davanti e quando mi vide si levò le cuffie dagli orecchie e mi salutò < Oh, ciao! Sei arrivata > disse.

< Si, pochi minuti fa > ricambia il suo sorriso.
Poco dopo fummo raggiunti dai la madre che subito non appena la vide, l'abbraccio e la baciò. < Ciao Alice! Come va, tutto bene? Tua madre, come sta? Ti ha accompagnato lei? > nel giro di pochi secondi l'aveva tempesta di domande, senza darle nemmeno il tempo di rispondere.

Un po' imbarazzata lei rispose < No, mi ha portato mio fratello, mia madre nn se la sentiva ed è rimasta a casa> lei aveva un fratello più grande di 5 anni e nonostante la differenza d'età e quella caratteriale, il loro legame fraterno era molto forte < Non si è fermato perché aveva altre cose da fare oggi, ma vi saluta >

Mia madre le sorrise e mentre continuavano la loro conversione, io cercavo di estraniarmi lasciando che il mio pensiero volasse, libero, via dal mio corpo librandosi in aria. Con la mente raggiunsi quella città che presto sarebbe diventata la mia nuova casa: chiudendo gli occhi cercai di immaginare i suoni, gli odori, i paesaggi, cercando di immagazzinare ogni singolo dettaglio che la mia mente mi forniva di quel luogo. La voce squillante di mio padre mi riportò alla realtà, riportando la mia coscienza nel mio corpo, in quel freddo aeroporto. 

< Ragazze .. > la corsa  lo aveva sfinito e nonostante il fiatone cercò di parlare < Fra poco dovrete partite..il vostro volo...>
Nello stesso istante gli altoparlanti annunciarono il numero del nostro aereo. Io ed Alice ci guardammo e prima che potessimo avvisarci verso il gate i miei mi bloccarono, stringendomi in un abbraccio. Entrambi scoppiarono a piangere, rumorosamente e fastidiosamente, mettendomi in imbarazzo davanti a tutti. Subito dopo cominciarono con le solite raccomandazioni che i genitori fanno ai figli prima di partire: fate attenzione, non date troppa coincidenza agli altri, chiamateci ogni sera con Skype, non bevete e non fumate, e così via.  Feci finta di ascoltare e quando chiamarono nuovamente il nostro volo li incitai a lasciarmi andare, quindi presi la mia valigia ed insieme alla mia amica ci avviammo verso la zona imbarchi, lasciandoci i miei piangenti genitori alle spalle. Dopo aver attraversato il corridoio prendemmo posto a sedere, vicino al finestrino proprio davanti all'ala dell'aereo, che non era poi così grande come me lo immaginavo, ma per un ora e mezza di volo era più che sufficiente. Dopo l'avviso del comandante finalmente iniziò la fase di decollo, pronti per un altro viaggio sospesi a 10.000 m da terra in mezzo alle nuvole, con destinazione Inghilterra.

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