Si sentiva annegare, era come se avesse immerso il viso nella Senna e non riuscisse più a levarsi da esso. I suoi polmoni si contraevano, ma non riuscivano più a gonfiarsi e incamerare aria. Era bastato così poco a renderlo niente, a distruggere in lui ogni certezza, la fede che ancora gli era rimasta.
Fuori dal suo studio Frollo si gettò in ginocchio, volgendo viso e mani giunte al cielo, che poteva vedere dalla balconata tra le due torri.
- Deus meus, ex toto corde me pǽnitet ac dóleo de ómnibus quæ male egi et de bono quod omísi... - sussurró - Perdonami, Signore, non sono degno d'essere tuo servo. Ti ho abbandonato per quella ragazza gitana, ma sai bene come l'uomo non possa resistere all'amore e, se è così forte da superare quello che provo per te, non può che essere giusto, no? Oh, perdonami se il desiderio si è impossessato di questo povero uomo, ma... -
Scosse la testa, prendendosi il viso tra le mani e lasciandosi sfuggire un lamento di frustrazione.
- Perdonami Padre, perché ho peccato. Merito l'Inferno, sì, ma sono felice se passerò l'eternità a bruciare con lei. Lascia che viva con lei la vita che mi rimane, permettimi di essere amato, dopo che ti ho servito tanto diligentemente. Lascia che possa finalmente vivere anche io. -
Questa volta parlava con il mento poggiato al petto, gli occhi bassi e pieni di quelle parole che non riusciva a trovare.
- Ho messo la donna sopra di te, mio Dio, sì, lo confesso. Mi ha acceso dentro una fiamma che non avevo mai provato prima, mi ha rovinato, ma, oh! Sono così felice lo abbia fatto! Mi ha reso caldo, da gelido che ero, mi ha reso vivo, anche se dannato! -
Le ultime parole le sputò quasi con rabbia, mentre si alzava e andava a cercare Quasimodo. Avrebbe dovuto avvertirlo di quello che aveva intenzione di fare e poi il prete sentiva che confessando a lui quel suo piccolo segreto, quella fuga disperata, si sarebbe sentito più leggero.
Lo trovò accoccolato contro Jaqueline, mentre le sussurrava parole dolci. Il gobbo notò subito la presenza scura sotto di lui, quindi si affrettò a scendere, come un gatto che decide di calarsi da un tetto e raggiungere la strada per ricevere qualche carezza. Allo stesso modo il campanaro si accostò all'uomo, accennando un sorriso rispettoso, che appariva più come una smorfia.
- Padrone. -
- Figlio mio, - dicendo questo gli posò una mano sulla spalla, stando attento a scandire bene le parole, perché l'altro potesse capire - devo andarmene, portare al sicuro quella ragazza. -
- Lo capisco, Maestro. -
Frollo percepì una punta di tristezza nella voce del giovane. Quasimodo con il suo unico occhio aveva capito fin da subito il tormento interiore del suo salvatore, il suo desiderio verso la gitana. Inizialmente aveva gioito quando lei lo aveva rifiutato, ma la preferiva tra le braccia del prete che del soldato. Frollo l'avrebbe, forse, resa felice, non avrebbe messo in croce l'amore della zingara, l'avrebbe rispettata. Aveva colto in lui anche il profondo bisogno della carne, ma il campanaro conosceva bene l'arcidiacono e, ci avrebbe messo la mano sul fuoco, dopo averla quasi violata, in preda ad una furia cieca, si sarebbe poi controllato. Non sarebbe più successo.
- Non posso portarti con me, ma qui avrai le tue campane. -
- Ciò che importa è che la Esmeralda sia al sicuro e, con lei, voi. -
Subentrò anche l'amarezza e il prete non potè fare altro che dispiacersi per quel dolore che gli stava dando.
- Cercherò di tornare, di tanto in tanto, quando non ci daranno più la caccia. -
L'altro annuì.
- Vi auguro buona fortuna, Maestro. Dopo avermi cresciuto ve lo meritate. -
Detto questo prese la mano dell'arcidiacono e vi posò la fronte, in una sorta di saluto e carezza allo stesso tempo. Per Quasimodo quella era la sua benedizione. Non poteva avere la gitana, lo sapeva, allora sperava che fosse felice almeno il suo padrone. Successivamente, con un balzo, tornò tra le sue campane, cercando consolazione sulla loro pelle di ferro.
Frollo provò una certa compassione per quel suo figlio adottivo che, in sedici anni, si era dimostrato molto più riconoscente verso di lui che il fratello. Lo guardò ancora una volta, poi si allontanò per preparare il necessario.
Esmeralda era rimasta immobile anche dopo che lui se ne fu andato. Non avrebbe mai immaginato una reazione simile da parte dell'arcidiacono. Non si aspettava di provare quello strano calore quando si era sentita stringere tra le sue braccia o l'apprensione nel saperlo ferito per causa sua. L'amore, poi la paura, per Phoebus erano scemate in altro, qualcosa che cominciava lentamente a fiorire.
Non aveva compreso il motivo per cui quell'uomo era scappato e nemmeno perchè non le avesse permesso di aiutarlo, in fondo voleva solo essere utile.
La gitana si era allora seduta, in modo piuttosto reverenziale, sulla sedia occupata poco prima dall'altro e lì lo aveva pazientemente aspettato, tormentandosi mani e capelli. Cosa aveva sbagliato? Non lo sapeva. Forse lui la odiava ancora, ma allora perché le parlava con quel tono, perché l'aveva stretta così e perché, soprattutto, aveva rischiato tanto per lei che era solo una misera zingara? Lei, che non era altro che l'ennesima pulce a Parigi, lei che non era altro che una vagabonda senza genitori, senza nessuna dote, senza cultura.
Mentre se ne stava lì seduta e pensava quelle cose, sfogliava distrattamente i fogli e i libri accumulati sulla scrivania. C'erano simboli che non conosceva, lingue stranissime di cui non riconosceva nemmeno l'alfabeto, disegni anatomici. Tra di essi scovò un foglio più piccolo, diverso dagli altri poiché non era vecchio e ingiallito. Fece appena in tempo a scorgere il suo nome tra quelle righe, che la porta si aprì, lasciando entrare il prete. Lei nascose il foglio sotto il corpetto, prima che lui potesse accorgersene, poi saltò in piedi e lo raggiunse.
- Cosa avete intenzione di fare? -
Lui le mise sulla testa il mantello che era stato suo. Era troppo lungo per quella ragazzina così piccola, ma l'avrebbe tenuta al caldo e ben protetta.
- Ce ne andiamo. Qui non è più sicuro. -
- Ma non possono entrare in questo luogo! Ho il diritto d'asilo! -
Claude Frollo si assicurò al fianco una bisaccia con qualcosa da mangiare, poi alzò gli occhi su di lei. Ne traspariva una certa dose di calma, nonostante tutto.
- Il diritto può essere infranto e, ora che sanno che io ti tengo qui, non sei più al sicuro. -
- Allora dove mi porterete? - lo incalzò - Dai miei fratelli? -
- No, loro non possono proteggerti e poi dopo quello che hanno fatto a Nostra Signora verranno cacciati, probabilmente. Non lo so, ma non da loro, non posso. -
- Sono la mia famiglia... -
- Lo so, lo so! - sospirò profondamente - Verrai catturata se ti porterò alla Corte, lo capisci? Devi fidarti di me, ragazzina. -
Lui la supplicò con gli occhi, mancava poco che si mettesse a pregarla in ginocchio. Lei allora si tirò il cappuccio ancora di più sul viso e annuì. Il prete la prese per un braccio, questa volta senza farle del male, e la portò via da quella prigione di pietra.
Non potevano raggiungere il luogo che aveva in mente a piedi. Fato volle che, vicino ad un paracarro, appena usciti dall'Île de la Cité, fosse assicurato un cavallo. Guardando la facciata della casa davanti a cui si trovava era facile dedurne fosse di qualche ricco giovanotto recatosi lì per, probabilmente, una ragazza. Frollo si segnò, chiedendo perdono al Padre anche per quel peccato, promettendo però di lasciare libera la cavalcatura una volta che li avesse portati fino alla loro meta.
La gitana non fece molto caso al furto del cavallo, lei che era abituata a quella vita. Non capiva nemmeno l'apprensione che scurì il volto dell'uomo quando slegò l'animale. Non sapeva che lui covava nel petto una profonda paura per la dannazione e che l'unica cosa ad alleviare i suoi timori era la presenza di lei.
L'arcidiacono la sollevò per la vita e la fece sedere sulla sella, lui salì subito dopo. Non c'era paura in Esmeralda ora, lo lasciava fare e lo guardava con attenzione. Avrebbe dovuto parlargli ma, anche nel suo animo da bambina, capiva che non era il momento adatto.
- Fai attenzione. -
Le disse lui, passandole un braccio attorno per evitare che cadesse quando avesse fatto partire il cavallo con un leggero colpo con i talloni.
La ragazza si strinse meglio nel mantello, poggiando poi la testa contro il petto dell'uomo e lasciandosi andare ad un profondo silenzio. Aveva paura di essere scoperta, che Phoebus potesse seguirli ed ucciderli entrambi. Ancora non pensava del tutto fosse un male se avessero ucciso il prete, però l'aveva salvata, quindi voleva dargli una possibilità, poi magari sarebbe scappata.
Frollo lanciò il cavallo al galoppo solo una volta fuori Parigi. Non aveva voluto fare troppo rumore prima, anche se le tenebre li nascondevano.
La casa dove era nato, nel feudo di Tirechappe, gli era sembrata la soluzione migliore. Lì sarebbero stati lontani dai pericoli di Parigi, avrebbero potuto attendere che le persone si dimenticassero di loro e poi, magari, tornare.
Il viaggio a cavallo durò tutta la notte e buona parte del giorno successivo. Esmeralda si era addormentata contro di lui, spossata. Nonostante tutto il respiro dell'uomo, calmo, misurato, le aveva permesso di rilassarsi e chiudere gli occhi. Anche il fatto di sentirsi più al sicuro, ora, con lui, contribuì molto. Da quando lo aveva visto difenderla in quel modo da Phoebus aveva cominciato a rivalutarlo, inconsciamente, perché in realtà lei continuava a ripetersi di odiarlo e voler fuggire da lui.
La piccola riaprì gli occhi solo quando percepì l'animale rallentare il passo e il prete muoversi. Scostò la testa dalla spalla dell'uomo e alzò appena il cappuccio nero, vedendo che si erano fermati davanti ad una casa piuttosto ampia, circondata da un basso muretto di pietre. Attorno ad essa crescevano piante, fuori ed erbacce, il tutto liberamente. Sembrava che non ci abitasse nessuno o che avessero lasciato semplicemente che la natura facesse il suo corso.
Frollo scese e successivamente aiutò anche lei, che continuava a fissare l'edificio.
- Dove siamo? -
Gli chiese, trattenendo uno sbadiglio, mentre le ultime luci del giorno li scaldavano. Frollo lasciò che il cavallo tornasse indietro, liberandolo delle briglie, perché non si facesse male. Successivamente si volse verso di lei e la superò, senza rispondere. Era assorto nei suoi pensieri, in ricordi dolorosi. Lei lo seguì, incespicando nel mantello.
L'ultima volta che era stato lì era per la morte dei genitori. Ricordava ancora i loro cadaveri, di come la malattia li avesse devastati. Scosse la testa e trasse fuori da una tasca le chiavi che aveva sempre conservato con cura, anche se credeva non sarebbe mai tornato. Si guardò attorno mentre entrava, sfiorando i mobili impolverati, lasciando scivolare gli occhi su tutti quei particolari che ricordava bene dalla sua infanzia, come un'incisione su una delle colonne in legno della sala principale, che recitava semplicemente il suo nome.
La gitana entrò con circospezione in quel luogo che puzzava di chiuso ed era troppo poco illuminato dal sole che tramontava.
Avvicinandosi notò il nome sulla colonna e capì in un istante.
- È casa vostra! -
Disse con voce squillante da bambina. Fece un piccolo saltello, sorridendo. Era come se quella scoperta avesse risvegliato in lei una strana felicità. Forse era semplicemente il suo animo infantile, oppure l'idea che lui condividesse con lei quel luogo così importante, con lei che una casa non l'aveva mai avuta.
- Sì. -
Storse appena la bocca, risvegliato da quella sorta di torpore in cui i ricordi lo avevano gettato.
- È così grande! La vostra famiglia deve possedere molti soldi! -
- La mia famiglia era parte della piccola nobiltà. -
Commentò a voce bassa. Lei si accorse che ne parlava al passato, segno che forse non c'erano più. Decise di non chiedere nulla e si tolse il mantello, porgendoglielo in silenzio. Lui lo prese, appendendolo su un gancio vicino alla porta e affrettandosi ad aprire le finestre per lasciare entrare un po' di luce. La gitana aveva preso a seguirlo come un cagnolino, studiando ogni sua mossa, interessata a tutto.
- Prima scappavi e ora mi segui? -
Il suo tono era ora piuttosto distaccato, nemmeno la guardava mentre saliva la scala che dava al piano di sopra, dove si trovavano le camere da letto. Esmeralda fece quel suo broncio indispettito e gli si fece più vicino.
- Si! -
- Non avevi paura? -
- Si, però... -
- Però ti ho difeso da quello sciocco. -
- Ve ne sono grata, davvero.-
- Eppure i tuoi occhi mi dicono che mi odi ancora. Non mi ami. -
Esmeralda rimase in silenzio, guardandolo negli occhi.
- No, non vi amo. -
Ma la verità era che cominciava a provare qualcosa, a vedere che c'era ben altro oltre un'armatura o una tunica e che, spesso, le persone non sono quelle che sembrano. Lui si era dimostrato gentile con lei, l'aveva salvata più di una volta e ci aveva provato anche in precedenza, nonostante avesse usato modi che l'avevano spaventata. Phoebus, invece, dal Dio che le pareva, si era rivelato essere una persona meschina, priva di amore, se non per sé stesso.
- Ad ogni modo, - si affrettò ad aggiungere - siete gentile, avete rischiato la vita e questo lo apprezzo molto. -
Gli prese una mano, tenendo la testa bassa, con i capelli che le scivolavano dolcemente sulle spalle. Osservò le linee sul palmo, come per cercare conferma di quello che pensava in esse. Le dispiacque vederle rovinate da piccoli tagli e minuscole bruciature. Rimanevano comunque grandi, morbide, segno che non aveva mai lavorato.
- Mi avete spaventata, non facevate che seguirmi e maledirmi quando mi vedevate. Poi avete ferito Phoebus, ma non sapevo fosse per il mio bene, non sapevo fosse perché volevate impedire che io facessi qualcosa di sbagliato. Oh! Se ripenso al fatto che stavo per rinunciare a mia madre per lui! Mi ha mentito! -
Si mordicchiò un labbro e continuò, visto che l'altro sembrava non voler parlare.
- Quando siete venuto nella mia cella credevo voleste farmi fuggire solo per avermi e farmi vostra, in fondo lo credo ancora, ma non mi avete costretto a fare nulla. Ero terrorizzata quando mi avete mostrato le vostre ferite, quando vi siete gettato ai miei piedi con quelle parole... -
- Ho lasciato che il desiderio della carne si impossessasse di me. Il mio intento non era quello di spaventarti, ma di aiutarti. Si, ti ho fatto cose orribili, ti ho detto cose altrettanto orribili e il mio era odio, lo ammetto. Era un odio che proveniva dal mio amore per te, perché non potevi e non puoi essere mia. -
- Mi desiderate così tanto? -
- Ti mostro la tua stanza. -
Decise di tagliare corto, lui, per evitarsi ulteriori spiegazioni dolorose.
Le fece vedere una camera con un letto ampio e un caminetto, così che potesse rimanere al caldo.
- Potrai dormire qui. Ho con me del cibo, ma domani dovrò andare a comprarne ancora, siccome questo non basta. Per ora dovrai accontentarti. -
- Non mi avete risposto.-
Borbottò contrariata. Per quanto temesse la risposta, preferiva sapere.
- Zingara, sì, se lo vuoi sapere ti desidero! Ti desidero dalla prima volta che ti ho vista. Desidero le tue labbra, passare le mani tra i tuoi capelli, sentire come è calda la tua pelle, toccarti, ma più di questo desidero che tu mi ami, che non sia solo passione carnale, ma che sia un sentimento vero, perché è questo che è per me. Ti amo nel vero senso del termine, ti amo fino a sentirmi morire e per questo ti odio, anche, perché mi stai distruggendo. So bene cosa è la passione, perché l'ho provata altre volte quando ero giovane, ma con te, zingara, è come veleno! -
Le aveva preso le mani, le stringeva e le carezzava. Il suo petto si alzava e abbassava affannosamente, come se pronunciare quelle parole gli avesse richiesto uno sforzo fisico notevole. Abbassò gli occhi, cercando di mandare giù il nodo che sentiva in gola.
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Odi et Amo
RomanceUna " What If...? ", nel caso in cui Esmeralda avesse preferito salvarsi la vita, piuttosto che la forca. Dal testo: - Ah! Il tuo corpo! - Rise amaramente lui - Cosa me ne faccio di un involucro? Amare il corpo e non lo spirito è una cosa che farebb...