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Ed eccola la nostra mitica new entry! agathabrioches entra a far parte della big family delle Ombrine Arzille <3 <3 <3



Nulla, non c'era più nulla.

Un buio cieco, lancinante, come i pensieri che mi facevano compagnia.

Un ricordo lieve prese forma, divenne solida immagine.

Una giornata di primavera.

Una domenica.

Avevo sempre amato la domenica da quando mi ero trasferita, amavo il silenzio che popolava la periferia e i turisti che sciamavano in piazza Duomo. Amavo le domeniche calde, le domeniche umide, le domeniche piovose. Amavo il dolce far niente, il cercare di fare tutto e quella scintilla d'ansia per il lunedì che sarebbe arrivato troppo presto.

La domenica era il mio rifugio.

La domenica era il giorno in cui potevo respirare, dopo una settimana passata a lavorare e a seguire i corsi in università.

Quella domenica avrei dovuto studiare, ma il sole illuminava una Milano nuova, una Milano incredibilmente sorridente, che aveva sconfitto la nebbia a suon di fiori e cieli tersi. Volevo vederla quella Milano che mi chiamava dalla mia finestra, dove la Madunina mi sorrideva splendente di raggi solari.

Un gioiello d'oro incastonato in una distesa di lapislazzuli.

Presi la mia borsa e uscii fuori dall'appartamento, lasciando Amina a sonnecchiare in camera.

Gironzolai senza meta, senza scopo, senza affanni, in quel pomeriggio di pace e caos, mescolati da un vento sottile che oltre lo smog odorava di primavera.

Entrai nella biblioteca di Brera, la Braidense, come la chiamavano i milanesi. Era una delle biblioteche più grandi d'Italia e, a mio parere, una delle più belle. Quando attraversai il salone principale, rimasi incantata e sentii il cuore spiccare il volo verso lo splendido soffitto ad arco decorato da un lampadario a gocce settecentesco.

Vagai per l'edificio, soffermandomi sui dettagli degli infissi, sui quadri appesi alle pareti, sfiorando con le dita il dorso consumato di libri antichissimi. Ero Daniel nel Cimitero dei Libri Dimenticati a cercare la mia Ombra del Vento e, in quel cimitero di libri, la trovai.

O, meglio, mi ci schiantai contro.

Ma si sa, tutte le cose più belle sono frutto di incidenti.

– Diamine! Stia più attenta, signorina! ​– bisbigliò l'uomo che avevo accidentalmente tamponato.​

– Mi scusi, io... Sono desolata! – balbettai, chinandomi a raccogliere i fogli che avevo accidentalmente fatto cadere allo sconosciuto.

Sbirciai quella scrittura fine e precisa, cercai di tradurre calcoli ed equazioni a me sconosciute, disegni di strutture, analisi interiori di macchinari, autopsie meccaniche. Guardai quei fogli affascinata, io che studiavo le superfici, le strutture, che studiavo la bellezza esteriore senza mai interrogarmi sul meccanismo che le muovesse.

L'uomo mi sfilò i fogli dalle mani. – Cerchi di capirci qualcosa? – domandò divertito.

– Con scarsi risultati, ahimè. Cosa ci fa un ingegnere nella biblioteca dell'Accademia delle Belle Arti?

– Studio il nemico – scherzò. – Tu studi qui?

– Studio architettura al Politecnico.

– Leonardo anche tu?

– Sì. – Mi ritrovai a sorridere a quello sconosciuto, ai suoi occhi amari come il caffè, al suo sorriso schivo e diffidente. Agli anni che portava più me, dipinti in volto da rughe sottile intorno agli occhi e dai solchi che il troppo cruccio aveva impresso nella sua fronte.

– Non dovrei parlare con un architetto, sai – si beffeggiò. – Siete leggermente sotto i Gestionali nella lista delle persone odiate dagli Ingegneri.

Sbuffai, infastidita da quel luogo comune. – E allora cosa ci fai proprio qui, in una tana di artisti? – Mi rilassa e, poi, questa è una delle biblioteche più belle d'Italia. Sono affascinato dalle cose belle.

Il suo sguardo mi lasciò intuire che il discorso non verteva più su arte e biblioteche e sentii lo stomaco ingarbugliarsi.

– Io sono Marco, comunque. Ti va un caffè?

Dal nostro schianto, dal nostro piccolo Big Bang, era nato l'Universo.

Un universo difficile, fatto di differenze, di contrapposizioni, di dubbi e d'intrusi.

In una domenica di primavera era sbocciato un fiore, ancora non lo sapevo, ancora non sapevo che non tutti gli uomini erano come mio padre. Non sapevo che mani forti potessero donare carezze, che labbra dure potessero nascondere un sorriso e che occhi scuri e profondi potessero racchiudere soli splendenti. Marco​...

Nel buio in cui ero nuovamente capitolata, vorticava l'immagine di Marco sdraiato inerme su quel lettino, il volto contratto, la sua bellezza mutilata dal dolore. Non volevo ricordarlo così, volevo ricordarlo mentre mi sorrideva al bar della Galleria Sozzani, in una giungla d'arte e d'edera in fiore, volevo ricordare i suoi occhi scuri nascosti dietro ai gelsomini che mi regalava ogni sabato, volevo ricordare le sue lacrime di gioia alla vista di quel piccolo angelo che avevamo creato.

Come si può generare tanta purezza da due anime spezzate?

Dov'era la mia Aurora?

Dov'era la mia unica luce, la mia luminosa alba dopo anni di ombre e oscurità?

Dov'ero io?

Dovevo spezzare il buio, dovevo tornare da lei, dovevo tornare da ​loro​. 

Ombra vivaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora