23.

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Mentre mi precipitavo di corsa fuori dall’hotel prima di essere fermato dalla tata, di cui sentivo i passi in lontananza, mi ero reso conto, in un momento di lucidità, che non potevo presentarmi in clinica di pomeriggio, quando sarebbero stati tutti lì, con Aurora in braccio. Così come non potevo tornare a casa, che sarebbe stato sicuramente il primo posto dove avrebbero cercato.

Affittai quindi una camera d’albergo e portai fuori a cena la mia piccola principessa. La guardai mangiare affamata il suo piatto di lasagne, dal quale ogni tanto alzava lo sguardo per fissarmi con i suoi occhi di cristallo, temendo forse che potessi sparire all’improvviso. Così come ero apparso.

Più tardi si addormentò accoccolata al mio petto nella nostra squallida camera. L’unica che potevo permettermi. Ma io mi sentivo più ricco di un re ora che avevo tra le braccia il corpicino caldo di Aurora.
Ma appena chiusi gli occhi l’idillio svanì.

Riapparve sulle mie palpebre chiuse l’inferno da cui tutto era cominciato, come a voler riequilibrare con il suo orrore il paradiso in cui mi sentivo.
Rividi il ristorante di lusso, con i suoi cristalli e i suoi marmi. I camerieri vestiti da pinguini che ci portavano piatti che contenevano quantità di cibo inversamente proporzionali al prezzo, ridicolamente alto. Era una di quelle sere a cui mio padre mi obbligava a partecipare, con tuoi i suoi colleghi, i finanziatori e non so chi altro.

E poi c’ero io. Il suo cane da compagnia.

Sara quella sera non era venuta, Aurora aveva la febbre, e la noia stava crescendo in modo esponenziale. Qualcuno alla mia destra continuava a versarmi del vino nel bicchiere, che immancabilmente spariva nel giro di qualche minuto.
Non ricordo chi fosse.
Voci che mi rimbombavano nel cervello. Un paio di occhiali squadrati sul tavolo.

-Andrea, riportalo a casa.

Mio padre arrabbiato.
Qualcuno che chiede il telefono. Una chiamata soltanto. Luci che si riflettono e si rifrangono sulle troppe superfici di vetro della stanza.
Usciamo fuori. Vento gelido.
Ci sediamo in macchina. Parcheggiata lungo la strada.
-Non preoccuparti. Ora Sara arriva.
Sara?
-Eccola.
Andrea scende.
La macchina scivola.
Senza controllo.
Il botto.
Pioggia di cristalli.
Come lacrime mi scorrono sul volto e si mischiano al sangue.
Buio.
Sul telefono un messaggio: Sara vienimi a prendere.

Mi hanno raccontato, mentre ero in un letto d’ospedale, che una volta uscito, solo con Andrea ho preso a fare scenate. Che non volevo salire in auto con nessuno che non fosse Sara. Che le ho scritto un messaggio. Che faceva freddo fuori e perciò, nell’attesa, mi sono seduto nella mia auto, al posto del guidatore. Andrea di fianco a me. Alla mia destra. L’angelo custode mandato da mio padre.
Ma la strada era in discesa.
Quando ha visto l’auto di Sara in fondo alla via, in basso, che si avvicinava, Andrea è sceso per andarle incontro.
Subito la macchina ha cominciato a muoversi. Verso il basso. Verso Sara.
Ma la strada era un rettilineo.
  Stretta.
Senza possibilità di fare manovra.
Dicono che ho tolto il freno a mano. E non ho cercato di fermarmi.

Senza controllo.
Il botto.
Pioggia di cristalli.
Come lacrime mi scorrono sul volto e si mischiano al sangue.
Buio.
Sul telefono un messaggio: Sara vienimi a prendere.

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