Bimba ribelle

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Il primo ricordo che ho è di quando avevo 6 anni: ero con la mia balia Berta e mia sorella maggiore Gemma seduta su una fontana in una piazza.
Non so quale piazza, non mi ricordo.
Berta mi accarezzava il capo e mi prendeva in braccio.
Mi piaceva.
"Siete belle come la vostra mamma". Ci diceva, prendendoci il visino fra le sue mani morbide.
Nostra madre era Monna Tessa, che era sposata con Folco Portinari, ricco banchiere romagnolo e priore di Firenze nel 1282.
In famiglia eravamo all'epoca quattro bambine, alle quali se ne sarebbero aggiunte altre due, per un totale di sei figlie.
Io era la seconda e Gemma era maggiore di me di un anno.
Io mi stringevo al petto di Berta, inspirando il profumo di gelsomino e violette che emanava.
Volevo tanto bene alla mia balia.
A interrompere quel momento furono gli schiamazzi di un uomo e di tre ragazzini più in là.
Si stavano allenando con la spada.
"Wow!". Esclamai con gli occhi brillanti staccandomi da Berta. "Posso andare lì?".
"Non ci provare Bice". Mi mise in guardia la balia. "Quella è una cosa da maschi, e tu sei una dama".
"E chi l'ha detto che devo esserlo per forza?". Nella mia mente di bambina ognuno poteva scegliere il suo destino, mi resi conto più tardi che era difficile.
Molto difficile.
Prima che Berta potesse rispondere io ero già scappata verso i quattro.
Il maestro dava ordini agli alunni, i quali non sembravano capire molto: "Allora, se volete dare un bel colpo al nemico la spada deve essere tenuta in questo modo, vedete come tengo il braccio?, Martino vedi?".
Martino non sembrava molto attento, allora intervenni io. "Così?". La spada era lunga il doppio del mio braccio.
"Vi chiamate Martino voi?".
"No Beatrice!".
Lui sorrise, non so se di tenerezza o di burla. "Ebbene Beatrice, voi siete una damigella, e le damigelle non devono prendere in mano una spada!".
Io era disposta a tutto pur di non fargliela avere vinta e far sì che vedesse che anche una bimbetta di 6 anni quale ero io potesse usare una spada.
"Messere voi ditemi solo se come tengo in mano la spada è giusto".
Lui sospirò. "Devo ammetterlo, sì è giusto".
Con la mia spada colpii il manichino che era lì. "Avrei provocato una ferita profonda se fosse stata una persona?".
Altro sospiro.
"Effettivamente... Sì, ma Beatrice, ditemi, volete veramente prendere in mano una spada?".
"SÌ!".
Ero una bimba con il quale si scendeva a patti molto difficilmente.
Ero testarda, ribelle, cocciuta.
"E allora rimanete qui ed esercitatevi bambina, che posso dire che avete grinta, e qui la grinta serve".
Io ero felice, mi ero appena sentita dire che "avevo grinta", cioè che ero coraggiosa!.
Nonostante le proteste di Berta, il maestro, che si chiamava Alberto, decise di tenermi fino alla fine della lezione, dicendo che ne avrebbe parlato con mio padre.
E quando tornammo a casa raccontai tutto alla mamma davanti al camino.
Aspettai con trepidazione quando Alberto sarebbe giunto a parlare con mio padre, e quel momento alla fine arrivò in un soleggiato giovedì.
Entrò nello studio di papà e dieci minuti dopo ne uscì.
Dietro di lui uscì mio padre che mi prese in braccio sorridendo. "Chi è la mia bimba spadaccina?".
"Io!". Lo abbracciai.
Questo voleva dire che avrei continuato il corso, e anche questa cosa mi piaceva tanto.

Il diario segreto di Beatrice PortinariDove le storie prendono vita. Scoprilo ora