Educazione

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Quando tornammo dalle vacanze mia madre decise che era il momento per me di venire educata secondo il mio rango.
L'educazione prevedeva l'insegnamento del cucito, del canto, delle buone maniere, delle lingue e dei precetti religiosi.
Mia madre stessa mi insegnò quest'ultimi.
Alta e sottile come un giunco di stagno, con i capelli neri e due occhi chiari e puri, Madonna Tessa, ora Portinari, era stata decantata e ammirata da ogni nobile della città prima che mio padre la chiedesse in sposa.
E il loro era stato un matrimonio fortunato, di rispetto reciproco e affetto, un matrimonio che sognavo anch'io.
Mia madre era una ninfa bruna, così veniva chiamata: la ninfa bruna bella come una visione, dalla pelle bianca e liscia e gli occhi limpidi come il cielo estivo che sapeva parlare e scrivere  fluidamente in latino e francese, ammirava le arti e seguiva i principi della Chiesa con una grande devozione.
Peccato che continuava a mettere al mondo figlie femmine, ma a differenza di molti altri mio padre non glielo fece mai una colpa: l'erede sarebbe arrivato, bisognava solo aspettare.
Quando iniziò a istruirmi era nel bel mezzo della sua quinta gravidanza.
Dal mio punto di vista l'inizio delle lezioni simboleggiava che avrei giocato di meno  con Iacopo, Francesca e Matilde, ma anche che avrei incominciato ad addentrarmi in un mondo più vasto: quello dei libri.
Sapevo già leggere e scrivere, eppure la maggior parte dei libri che avevamo in casa erano noiosi per una bambina di sei anni.
O almeno per me.
Per anni avevo fatto le boccacce a Gemma dietro la porta della stanza dove il precettore teneva le lezioni e per anni ancora avevo interrogato mia sorella a tavola per domandarle le cose che imparava.
Non interessata da un lato, curiosa dall'altro.
Le lezioni si tenevano nelle nostre stanze o fuori, sotto al pergolato di glicine del giardino quando era bello.
In poco più di un mese sapevo già la prima declinazione del latino, i verbi base del francese  e le basi per il cucito.
Però quando tutto finiva tornavo da Jacopo e allora cominciava il divertimento.
Giocavamo con gli spadini in cortile e lui mi raccontava storie.
Diceva di essere stato in Spagna, sul cammino di Santiago de Compostela, marciando per giorni nel verde delle foreste e bevendo dai fiumi o da torrenti, e portando con sé la conchiglia del pellegrino che brillava al sole.
"Come no!". Dicevo io: non che non mi piacessero, ma mi sembrava improbabile che un bambino di otto anni avesse percorso da solo un cammino intero.
"Te lo giuro!".
"E allora com'era la basilica di Santiago?".
"Sembrava fatta di roccia, come una fortezza, ma sembrava roccia di mare, e invece il paese era tutto un saliscendi di vie, con le mura di pietra chiara ricoperte di edera e di glicine".
E allora io smettevo di ribattere e ascoltavo.
Certe volte ci prendevamo anche a botte, naturalmente fuori dalla vista di tutti, ma alla fine vincevo sempre io.
E Jacopo, il figlio di nessuno che del suo passato mi diceva poco, e che quel poco era difficile da credere, diventò il mio migliore amico.
Compagni inseparabili e alleati di giochi e birichinate, un'improbabile duo.
Eppure eravamo lì e giocavamo, avevamo voglia di vivere e di sfidare il mondo.
Eravamo luce ed ombra, un figlio di nessuno e la figlia di un nobile, diversi ma uniti.
Forse avevano ragione le mie sorelle: forse ero strana.
Ma se quella era la stranezza allora sono stata orgogliosa di esserlo.
Tanto.

Il diario segreto di Beatrice PortinariDove le storie prendono vita. Scoprilo ora