Era ormai da qualche mese che mia madre mi spronava nel cercare un aiuto, almeno per raccontare ciò che una ragazza di 18 anni non dovrebbe mai nascondere, né tanto meno aver provato sulla propria pelle.Ho sempre visto quell'evento come conseguenza diretta della mia ingenuità e del mio innato desiderio di esprimere il mio essere un animale sociale: ero affamata, irresponsabilmente, di amicizia e di dialogo, ero da sempre affascinata della pericolosa tessitura dei rapporti superficiali e profondi, che mi hanno tuttavia danneggiata in maniera irreparabile nel corso degli anni.
Ed era proprio il senso di colpa, la vergogna viscerale nell'essermi comportata irresponsabilmente, a frenarmi nel chiedere una visita da una specialista.
Inoltre, per quanto il supporto di mia madre sia stato cruciale nel mio tentativo di preservare una minima integrità mentale, sapevo di aver determinato la sua grave e costante infelicità, aumentando ulteriormente il tormento per quanto successo ormai più di 10 anni fa.Mia madre, per compensare le conseguenze di quanto successo, ha sempre lavorato moltissimo, sia dal punto di vista prettamente manuale, ma soprattutto dal punto di vista mentale ed emotivo.
Tuttavia, malgrado il suo duro lavoro, la situazione economica della mia famiglia versava in condizioni non rosee: gravare, dunque, la nostra condizione con sedute settimanali di psicoterapia non avrebbe di certo aiutato le nostre tasche; eppure, vedendo mia madre finalmente fiduciosa, ero riuscita in qualche modo ad allontanare la negatività di tale scelta e a prendere quindi coraggio nell'affrontare un nuovo, intenso percorso.
Ed io come mi sentivo in merito? Come stavo affrontando la consapevolezza di dover raccontare per la prima volta la mia storia a qualcuno di diverso dai miei genitori?
In realtà il problema non era il parlare dell'evento in sé.
Il vero problema era riuscire ad arginare ciò che ero diventata dopo quel pomeriggio di Marzo, che ormai ritenevo radicato nel mio essere e frutto semplicemente del mio naturale carattere.Nonostante la mia sfiducia e il mio apparente disinteresse, quando bussai per la prima volta alla porta del suo studio, sentii le gambe cedere sotto il mio peso.
Non conoscevo il volto della mia terapeuta, non conoscevo il suo nome, ma sapevo per certo che, entro breve tempo, mi avrebbe conosciuta come nessun altro: il pensiero di un'intimità così abissale con una sconosciuta provocava in me un inspiegabile disagio.
Quando il suo sguardo si scoprì da dietro la soglia, il mio petto iniziò a pesare in maniera opprimente; tuttavia, con un gesto gentile, invitandomi ad entrare e a sedermi, riuscì in qualche modo a catturare la mia attenzione che, in quel momento, vacillava in un vortice di irrequietudine.
Mi arresi all'idea che avrei dovuto, prima o poi, parlare e mi lasciai sprofondare nella sedia, abbandonandomi ad un lungo respiro.
Notai i suoi occhi muoversi con veemenza: sapevo che stavano cercando avidamente di cogliere anche i più piccoli dettagli dei miei gesti e della mia postura.
Passò qualche istante prima che decisi di emettere qualche vago suono dalla bocca:
«Mi chiamo Martina, salve.»
E fu così che iniziammo.
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Androfobia
General FictionMartina ha paura. La sua è una paura sottile, che facilmente si riesce a celare al di sotto del suo aspetto gracile e timido, ma apparentemente sereno. La paura di Martina è nata in un pomeriggio di Marzo e da quel momento non l'ha più abbandonata...