Ammetto che le mie aspettative sulla psicoterapia erano piuttosto stereotipate e fondamentalmente errate.
Non trovare, ad esempio, la classica chaise longue in pelle, che ti immagini presente in ogni studio, è stata una grande delusione; non è sicuramente lo stesso confrontarsi seduti su di una sedia scomoda e facilmente reperibile in un grande magazzino qualsiasi.
Tuttavia, una delle mie previsioni riguardo questa prima esperienza, era purtroppo esatta: la Dottoressa Baroni non parlava.
Si limitava a scrivere, a segnare ricordi, date, sogni, nomi e qualsiasi dato potesse aiutarla, evitando, tuttavia, di scambiare un qualsivoglia segno di contatto umano con la sua paziente.La psicoterapia non è facile per nessuno, a maggior ragione se sei una ragazza come me che ha, da sempre, difficoltà nell'interloquire con le persone.
« Presentati e parlarmi di te» , mi disse appena si sedette, prima di immergersi nel suo interminabile silenzio.
Non avevo mai dovuto parlare di me con qualcuno: le presentazioni per me erano off-limits ormai da anni e a chi permettevo di conoscere il mio vero essere, senza presentazioni, in realtà lo conosceva già da tempo, ben prima di quel pomeriggio di Marzo.
È difficilissimo riassumere in poche righe ciò che la mia mente ha riversato all'interno della scatola cranica per anni e anni, senza trovare mai una valvola di sfogo.
Rimasi pertanto in silenzio per qualche minuto, osservando l'ambiente austero che mi circondava.
Il suo studio era pressoché vuoto, piuttosto sterile e amorfo, paragonabile alla pettinatura retrò della Dottoressa Baroni, che con il suo sguardo imperturbabile continuava a scrutarmi con professionale attenzione.Il suo carattere in quella stanza veniva espresso solo attraverso qualche ricordo impresso sulla carta fotografica.
Non mi focalizzai sulle foto, ero troppo occupata, in realtà, a sorreggere il peso del suo sguardo fisso su di me.Mi inquietavano i suoi occhi fermi, sicuri, ma di certo espressivi all'ennesima potenza: voleva conoscermi e avrebbe fatto di tutto per farmi dire qualcosa.
Iniziai ad agitarmi, la pretesa di sentire la mia voce riecheggiare per la stanza era ormai gravosa, pertanto mi sentii in dovere di risponderle, almeno per cercare di arginare quell'ansia che ormai si era aggrappata saldamente al mio petto.
«Allora, già l'ho detto che mi chiamo Martina, vero?»
Annuì con la testa, restando comunque rigida nella sua posizione elegante e professionale.
« Okay, sì.
Allora posso dire che ho 18 anni, compiuti lo scorso Aprile, 15 Aprile per la precisione.
Posso anche dire che studio, sì, faccio il liceo scientifico, sono al quinto anno. »Vidi uscire dalla punta della sua biro l'inchiostro.
Segnò la parola Scuola come primo punto.Mi sentivo di aver sbagliato qualcosa, probabilmente non dovevo parlarle subito dei miei studi, forse voleva sentirsi dire altro, forse voleva... persi il discorso e la sua penna si fermò a ritmo della mia voce.
« Vado abbastanza bene a scuola, forse può interessarle.
Mi piace Italiano, Filosofia e anche Storia dell'Arte.
Matematica non è la mia passione, ma me la cavo.»Mi interruppe:
« Fai altro oltre alla scuola? Qualche sport, qualche passione?»Rimasi impietrita.
Non parlavo più di sport o di hobby ormai da anni.Risposi con un filo di voce, «No.»
«E cosa fai quando non stai a Scuola? »
« Studio.»
Rimanemmo in silenzio per qualche istante, guardai la sua penna danzare ancora sul suo foglio, che cominciava via via ad essere sempre più gonfio di appunti.
Sospirai e decisi di parlare io per prima.
«Non esco di casa quasi mai, se lo faccio è in compagnia dei miei genitori, per necessità urgenti »
Scrisse anche questo tra i suoi appunti, sottolineando la frase non esco di casa quasi mai tre volte.
Appoggiò la penna delicatamente sulla scrivania e, alzando gli occhiali ormai in bilico sulla punta del suo naso, iniziò nuovamente a fissarmi in silenzio.Pensai che probabilmente portava gli occhiali per poter curiosamente meglio nella mente dei propri pazienti e notare particolari che altrimenti non avrebbe colto con un'osservazione superficiale.
Magari la sua vista allenata funzionava come un microscopio ottico.
O forse semplicemente non ci vedeva.«Perché ha sottolineato tre volte la frase Non esco di casa quasi mai?»
le chiesi con un tono quasi stizzito«Perché non è una cosa normale a 18 anni non uscire quasi mai », rispose
Impallidii, mi sentii come se qualcuno, piano piano, stesse scoprendo il mio peccato mortale.
Ed era una sconosciuta a farlo, per la prima volta.
Non era bastato il sorriso appena entrata nel suo studio, né mostrarle la mia parlantina ironica, né tanto meno raccontarle di essere una ragazza particolarmente timida come facevo a scuola.
Non sarei mai riuscita con lei a mentire davvero: lo avevo capito da come mi guardava, senza smettere un attimo, con lo sguardo severo di rimprovero.Cedetti e abbassai il viso ripiegato goffamente sul mio collo, ricolma di vergogna.
« Lo so che non è normale, sono qui per questo, credo.»
Continuai:
«Un tempo ero diversa.
Quando ero una bambina avevo un animo esuberante, frizzante e parlare con le persone non mi stancava mai.
Sia con i miei coetanei, ma anche con chi mia madre mi raccomandava sempre di non parlare.Ascoltavo poco mia madre: è normale quando hai 7 anni e una mente priva di qualsiasi concetto di malizia o peccato.
Avrei dovuto ascoltare mia madre, ora sarebbe felice ed io sicuramente meno colpevole della sua infelicità.»La biro cominciò a correre sul foglio, impaziente nel sentire e scoprire il resto della mia storia.
«Era un pomeriggio di Marzo, non ricordo il giorno, ma erano quasi le 6 e 30.
Fuori era già buio.»
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Androfobia
General FictionMartina ha paura. La sua è una paura sottile, che facilmente si riesce a celare al di sotto del suo aspetto gracile e timido, ma apparentemente sereno. La paura di Martina è nata in un pomeriggio di Marzo e da quel momento non l'ha più abbandonata...