Capitolo 3

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Ho ricordi nitidi della mia infanzia; potrei narrare, seguendo ogni minimo dettaglio, situazioni e paesaggi visti decine di anni fa.

Sono solidi e chiari nella mia mente e li ho sempre custoditi come un bene preziosissimo, spaventata in particolare dal poter perdere le reminiscenze delle sensazioni provate in quegli attimi felici.

Ricordo perfettamente, ad esempio, una domenica mattina.
Mio padre era entrato nel mio letto.
Costruimmo un castello di cuscini e lenzuola: dovevo proteggere il mio regno dall'orco cattivo che voleva distruggerlo.

Il gioco finì con un lungo abbraccio tra la regina del castello e l'orco, che così cattivo, al tempo, non era.

È stato l'ultimo momento in cui ho percepito mio padre nel mio letto senza quella nauseante sensazione di disgusto che mi accompagna tuttora.

Fu il primo ricordo che mi venne in mente nel momento in cui mi accinsi a raccontare di quel pomeriggio di Marzo alla Dottoressa Baroni.

«Era un pomeriggio di Marzo, non ricordo il giorno, ma erano quasi le 6 e 30.
Fuori era già buio.

La scuola di danza del mio paese si trova, e si trovava all'epoca, a poche centinaia di metri da casa mia.

Mio Nonno ammoniva spesso mia Madre: era spaventato all'idea che una bambina di sette anni potesse tornare a casa da sola, a quell'ora, specie d'inverno quando il sole tramonta sempre troppo presto.

Amavo danzare, in particolare essendo io al tempo una bambina con un grande acume, mi piaceva esibirmi e fraternizzare con gli altri bambini della scuola.
Non ho mai pensato che una passione profonda come la danza avrebbe potuto danneggiarmi in questo modo.

Non ho più danzato da quel giorno.»

La Dottoressa socchiuse gli occhi e incrociò le braccia.
Le sue labbra si intrecciarono in una smorfia di seria concentrazione.
Mi stava ascoltando con estrema attenzione.

Non avevo mai raccontato la mia storia nei minimi dettagli.
Sapevo che avrei dovuto farlo con la Dottoressa e che avrei dovuto ricordare quell'evento con la stessa lucidità e destrezza con cui ricordavo il resto della mia infanzia.

Le cicatrici nella mia memoria di quella giornata erano perfettamente integre e ancora dolenti; era descriverle e riportarle alla mente con la forza della mia voce il vero problema.

Erano le 8 e 15 quella sera e una bambina di 7 anni non era ancora tornata a casa dalla scuola di danza.

Mia madre si lanciò sul telefono e chiamò immediatamente la maestra del corso di ballo.

«Martina? No, se ne è andata via appena finita la lezione, alle 6 e trenta.»

Fui ritrovata nei pressi di un piccolo bosco, ben lontana da casa mia e dal tragitto che avrei dovuto percorre.

Il mio piccolo body rosa da danza era strappato, come le calze candide ormai completamente lacerate in zona pelvica.

Avevo un ematoma sulla fronte ed ero stata ritrovata priva di sensi.

Ero, inoltre, parzialmente nuda.

Lessi tutto ciò nei verbali della polizia.

Sospirai profondamente e ripetei ad alta voce per infondermi coraggio:

«  Era un pomeriggio di Marzo, non ricordo il giorno, ma erano quasi le 6 e 30.
Fuori era già buio.»

Quel pomeriggio afferrai il mio zainetto da terra e, come ogni volta, salutai la mia insegnante di danza con la mano da lontano, mentre si accingeva ad iniziare la lezione successiva.
Solitamente, essendo io molto piccola, si assicurava che fossi tornata a casa senza problemi.
Ma quel giorno, avendo fatto ritardo con le lezioni, si dimenticò di chiamare mia madre.

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