Capitolo 6

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« Androfobia:  forte sensazione di paura nei confronti delle persone di sesso maschile

La parola deriva infatti dal greco: andras "uomo" e phobos "paura", e descrive una intensa, persistente ed anomala paura che può compromettere in modo significativo la qualità della vita di chi ne soffre. 

Le persone androfobiche hanno infatti la tendenza ad evitare gli uomini; inoltre possono sentirsi estremamente ansiose ed angosciate nei casi in cui si vedranno "costrette" a stare in loro presenza oppure ad instaurare un dialogo, una conversazione con loro. »

Il riflesso di quelle parole si specchiò nei miei occhiali da vista, illuminati solo dal risplendere nel buio dello schermo del computer.

Dietro di essi, una moltitudine di lacrime si gettò a cascata lungo le mie gote.

Capii di aver trovato finalmente un nome a ciò che percepivo dentro di me da anni e quell'angoscia feroce che mi ossessionava aveva finalmente un senso.

Ancora stordita, contesa in una dicotomia tra gioia e terrore, decisi di annotarmi nel mio diario quanto appena letto, prima di accingermi a dormire.

Il mio volto si dipinse di un caldo rossore e sentii la mia testa girare vorticosamente; sebbene sapessi che il mio malumore e la mia inadeguatezza fossero sicuramente causati da quanto successo quel pomeriggio di Marzo, affibbiare nome e cognome a ciò che provavo ogni giorno mi consolava terribilmente.
Mi sentivo meno sola e più compresa.

Non riuscii ad addormentarmi: sebbene fossero quasi le quattro del mattino, continuavo a lottare con le coperte senza trovare serenità.
Fremevo infatti dalla voglia di incontrare, il giorno seguente, la Dottoressa Baroni e raccontarle cosa, accidentalmente, la mia brama di curiosità aveva scoperto navigando su Internet.

Mi svegliai con una terribile emicrania.
Pur essendo in vacanza ormai da qualche settimana, la stanchezza di quelle giornate terribilmente vuote caratterizzava ogni mia estate.
Ero consapevole, inoltre, che l'estate di quell'anno sarebbe durata più a lungo e mi avrebbe spinta in un salto verso l'ignoto.

Il torpore delle mie membra e l'angosciante dolore al petto accompagnavano costantemente i miei giorni estivi passati nel letto o, comunque, rinchiusa tra le mura domestiche.
Spesso, nella mia camera, sentivo l'aria via via diradarsi, lasciandomi esanime senza più fiato; pur rimanendo senza ossigeno e senza speranza, il mio desiderio di uscire restava un insignificante segnale di sopravvivenza rispetto al recondito impulso di perire sfinita dalla mia asfissiante apatia.

Finii di prepararmi e di vestirmi: quel giorno sarei uscita e avrei incontrato la Dottoressa Baroni nel suo studio, che man mano sembrava sempre più accogliente e meno austero.

Avevo iniziato a ritrovare nei pochi quadri appesi al muro un accenno di casa.
Non avevo mai notato le pennellate di colori caldi perdersi sopra quelle tele, non avevo mai notato le pareti tinte di ocra intenso.

La sedia diventava ogni volta meno scomoda.

« Vorrei raccontarle cosa mi è successo ieri notte. » Esordii una volta sprofondata nell'empatia della confessione.

« Ho sempre constatato dei sintomi a seguito di quanto successo a sette anni.
È stato un caso, ma non avevo mai trovato prima d'ora un concetto, una parola che descrivesse perfettamente ciò che provo.
Penso di soffrire di Androfobia, fobia nei confronti del genere maschile. Combacia perfettamente tutto.
Mi sono finalmente sentita capita, parte di un qualcosa.
Descritta. »

Nella mia mente iniziò una danza sfrenata di flashback, di respiri affannosi, di palpitazioni, di panico, di urla disperate e sempre strozzate.
Tutto ciò sempre di fronte ad una figura di sesso maschile.

Mi ricordai immediatamente di mio padre, di mio nonno e anche di Tommaso, il mio compagno di classe delle medie.

Della sua dichiarazione d'amore.
Del suo prendermi la mano.

Del mio pianto avvilito  e sconclusionato.
Del mio senso di colpa nell'essermi mostrata come una preda appetibile.

La Dottoressa interruppe bruscamente il climax ascendente di ricordi dolorosi che cresceva via via nella mia testa.

« Martina, ti faccio una domanda.
Oltre all'appagamento dell'esserti affibiata un'etichetta qualsiasi, pensi che conoscere il nome di ciò che hai passato, senza tuttavia analizzare ciò che la conoscenza può portarti a risolvere, potrà realmente aiutarti? »

Mi sentii nuovamente fraintesa.
Il suo tono saccente e arrogante aveva infranto ciò in cui riponevo tanto ottimismo.
Le pareti si erano fatte di nuovo grigie; sotto di meno aghi incandescenti rovinavano la mia comoda seduta.
Mi irrigidii per evitare che essi mi pungessero ancora.

« Se la mia è realmente una fobia, qualunque sia la causa, se esistono dei sintomi essi possono essere risolti.
Perché non conoscere allora a quale etichetta appartengo? Come si fa poi a riconoscere quale malattia mi affligge? » Risposi con decisione.

Sentii il ticchettio dei suoi occhiali appoggiati sul tavolo stravolgere il silenzio che si era creato a seguito della mia affermazione.

Mi guardò a lungo, senza sbattere le palpebre.
Rimasi inquietata dalla fermezza del suo sguardo.
Il rumore della mia deglutizione scandiva lo scorrere dei secondi.

« La nostra terapia non è finalizzata a conoscere i sintomi che si presentano.
Sai benissimo che soffri d'insonnia, sai benissimo che soffri di attacchi di panico, che durante la notte spesso vieni colta da panico notturno e che durante il giorno non riesci a controllare il tuo terrore e lo eviti, evitando chiunque ti stai intorno, senza cercare una soluzione.

Lo sai benissimo e lo so anche io.
Ma conoscere i sintomi, magari affibiandogli un nome, non ti farà sentire meno vulnerabile, né ti farà stare meglio.

Concentriamoci su ciò che vorresti fare se stessi meglio e non su ciò che, in passato, ti ha fatto stare male, crogiolandoti nel ricordo angosciante.
Non sei malata, sei uno scrigno di salute in potenza.
Devi solo trovare la chiave, capendo  e osservando le gabbie del passato.
Perché si trova al loro interno, ben nascosta. »

Le sue parole arrivarono violente come uno schiaffo in volto.
Mi svegliai dal tempore della negatività e iniziai a comprendere un'idea per me ignota: futuro.

Abbassai lo sguardo cercando di evitare i suoi occhi.
I miei capelli ramati celarono il volto carico di rimpianto.
Avevo la chiave sotto il mio naso, eppure non riuscivo a raccoglierla in nessun modo, pur restando intatta nei miei neuroni scalpitanti.
Sentii la mia logica e il mio orgoglio sgretolarsi in mille frantumi.

Dall'alto della mia superba intelligenza sapevo di aver fallito nel comprendere ciò che mi serviva davvero.

La ringraziai più volte per quelle parole, e il desiderio di scovare la chiave nascosta tornò a brillare e a pulsare nel mio petto.

Finalmente colsi il significato di quelle sedute e di ciò che, ogni settimana, facevamo.

Presi, allora, il passato e le mie cicatrici e li buttai sul tavolo da gioco della mia coscienza; Non ci sarebbero stati più segreti, né vergogna: solo voglia, immensa, di vincere la partita al quale stavo giocando da una vita intera.

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