Capitolo 7

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Non è facile riuscire a cogliere ciò che con la terapia si vuole raggiungere.
Ero cosciente del fatto che non potevo più vivere come fossi un'anacoreta che cerca nella solitudine la chiave per l'ascesi; non ero così spirituale da ritrovare nell'isolamento qualcosa di diverso dall'angoscia.

Il mio silenzio prolungato rimbombava per tutta la stanza, scandito solo dal ticchettio feroce della sua biro; il pallore della mia pelle si scaldò di roseo imbarazzo.

Eppure la domanda che la Dottoressa Baroni, nascosta dietro i suoi occhiali leziosi, mi aveva rivolto era semplice: « Che emozioni provi pensando a domani?»

Viaggiando nella babilonia del mio Io interiore, abbandonai il mio sguardo alle curve tenere del volto della Dottoressa.
Cercai, tra le rughe scavate agli angoli delle sue labbra sottili, la risposta a quanto chiesto.
Era un mio grande difetto non riuscire a districare il tumulto di emozioni che si celava nello spazio più recondito della mia mente; mi credevo un essere totalmente razionale, non capendo che, l'irrazionalità delle mie emozioni, era solo racchiusa violentemente all'interno di un cassetto pronto ad esplodere.


Non sapevo con certezza cosa provavo pensando al giorno seguente.
Mi era capitato, durante tutta l'estate, di ritrovarmi a piangere sopraffatta dalla disperazione, per poi redimermi in un eccitato sorriso di buon auspicio, vivendo quei mesi divisa in una dicotomia opprimente.


Ciò non mi aveva, comunque, bloccata nello studio: avevo scelto una strada complessa e il mio isolamento obbligato aveva giovato nel raggiungimento del mio scopo.

Il giorno seguente sarebbe iniziato il mio primo giorno di Università.

Per quanto avessi scelto, con passione e desiderio, la facoltà di Medicina, ciò che mi turbava maggiormente era dover subentrare, dopo anni di sforzi nel crearmi un micro-ambiente favorevole alle mie esigenze, in una realtà ostile e sconosciuta.

Tuttavia consideravo quel giorno tanto atteso come un banco di prova per la terapia che svolgevo ormai da mesi e che mi aveva portata spesso a riflettere sulla sua effettiva efficacia.

Sospirai, rompendo così il vuoto uditivo che inondava la stanza.
La Dottoressa Baroni, sistemandosi la sciarpa beige che le cingeva il collo, approfittò del mutismo ormai spezzato: « Mi hai parlato spesso, in questi mesi, del tuo immenso impegno per entrare a Medicina, perché ti sei chiusa in te stessa? Cosa ti spaventa?»

Allontanai il viso dalla sua occhiata curiosa e pietosa, abbassando il mento sporgente a premere contro il mio petto.

« Forse ho sbagliato facoltà. », risposi con un filo di voce, muovendo a malapena la bocca.

« Perché dici questo? Non è, forse, da anni che desideri diventare una ricercatrice? Vuoi buttare tutto così, per la paura?», aggiunse con tono deciso, come se cercasse di sgridarmi.

« Paura non è la parola adatta » , esclamai, corrugando la fronte con voce sdegnata, « Ciò che provo è meglio chiamarlo disgusto, o anche repulsione.

Sono affascinata dall'ambito medico, ma non dalla gente che dovrei direttamente curare.

E' per questo che vorrei risolvere le loro vite da lontano, come ricercatrice, senza toccarli.

Ma ora non so più se lo voglio veramente e se sono pronta ad imbattermi nel rischio di dover entrare in contatto con qualcuno, anche semplicemente con i miei futuri compagni. »

Scossi la testa in segno di sconfitta, accompagnando ritmatamene il mio dissenso alla danza delle unghie laccate di rosso della Dottoressa che tamburellavano sulla scrivania.

Pur di fronte alla consapevolezza dell'ennesima disfatta, il suo viso si distese in uno strano sorriso compiaciuto.
Scostò la frangetta castana dal volto, mostrandomi ancora con più enfasi il calore della sua espressione.

« Puoi provare ad elencarmi quali sono i pro e i contro dell'eventuale scelta di ritirarti dalla tua nuova facoltà?», ribatté con fare risoluto.

Mi irrigidii: oltre all'effettiva repulsione per la socialità che si prospettava, mi ritrovai la mente sgombra da altri pensieri.
La paura, come lei l'aveva chiamata, si era presa pieno possesso delle mie strutture assonali, prevaricando su qualsiasi altro pensiero positivo e sul desiderio che nutrivo da anni di studiare nel campo medico.
Deglutii rumorosamente, palesando tutta la mia ansia.

« Senti, vorrei proporti una sfida. » , esordì la Dottoressa spezzando il mio flusso di coscienza, « Non dovresti prendere questa esperienza con l'unico fine di studiare e laurearti.
L'Università, così come la scuola in generale, è un contenitore di persone e di infiniti mezzi di comunicazioni.
Per te la prova è doppia, ma questo dovrebbe spronarti a provarci, piuttosto che fuggirne senza tentare; perderesti non solo il lavoro dei tuoi sogni, ma anche l'opportunità, più che rara, di superare la tua paura, o come la chiami tu, il tuo "disgusto".
Se cedi ora, non saprai mai se saresti riuscita a vincere. »

Stavo ascoltando la Dottoressa molto attentamente, affossando per qualche istante il mio orgoglio e la mia folle sicurezza.


« Dovresti sforzarti, ogni giorno, a parlare con un tuo collega che frequenta la tua stessa Facoltà. Prendilo come un compito che ti assegno e che devi fare per forza, anche se all'inizio sarai sicuramente reticente. »

Era la prima volta che la Dottoressa Baroni mi obbligava a fare qualcosa.
Dall'elevatezza del suo essere stata pressoché inutile in quei mesi di terapia, provai rabbia nel vedere che, prepotentemente, si poneva tra me e le mie scelte personali, senza che glie lo avessi assolutamente permesso.
Sbuffai indispettita, mostrando la mia collera nella fronte corrugata e negli occhi ormai cupi e stretti.

« Perché dovrei farlo? Non dovrei guarire senza che nessuno mi ordini cosa fare e come essere? » , replicai stizzita.

« Martina, cosa ti spinge a rimanere ancora qui, a spendere ogni settimana i tuoi soldi se non pensi che il mio aiuto ti possa, in qualche modo, giovare? Puoi smettere se vuoi, non mi offenderò se decidi di farlo. »

Rimasi interdetta da quelle parole.
Mi sentii sopraffatta dal dubbio della scelta che si palesava, cruda e violenta, davanti a me.
I miei occhi si caricarono di umidità, bagnandosi di rosso intenso.

Percepii, in quelle frasi, la fredda aggressività che tanto mi spaventava della Dottoressa, ma che, allo stesso tempo, mi faceva percepire come lei, in realtà, ci teneva a me.

« Cosa pensi sia alla base della nostra terapia, senza medicine né diagnosi di nessun genere?», aggiunse seccamente.

Non le risposi, affogando ormai tra le lacrime che allagavano le mie guance.

« La fiducia in me, nel futuro e in ciò di cui discutiamo, è ciò che è alla base del tuo processo per la ricerca della serenità.

Spezzare questo legame di fede significa fare un passo indietro e rimanere ancorati alle proprie ossessive convinzioni.

Ora, puoi fidarti ancora o vuoi mollare? » Concluse, tendendomi la mano leggermente avvizzita dall'età.


Osservai le mie dita sottili tremare in maniera martellante, ma pur essendo titubante, decisi di porgerle la mano e di stringerla nella mia, bagnando entrambe con le mie lacrime scroscianti.

La seduta terminò con un pianto infinito, che mi accompagnò per tutta la serata.
Mi addormentai molto tardi, con il viso ancora umido di ansia e terrore per la mattina seguente.
Ma ero, finalmente, pronta a combattere per la mia felicità.


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