9. Dubbi

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Di nuovo nella carrozza.
I colpi di redini di Corvo sembravano far tremare l’intero mezzo, e il suo ondeggiare e saltellare freneticamente sul suo posto d’onore di cocchiere rendevano l’impressione ulteriormente realistica.
Brynmor sedeva sui sedili imbottiti, e ripensava a quanto scomodamente aveva viaggiato la stessa mattina per raggiungere la misteriosa città di Neferendis, e a come le stesse domande che lo assillavano allora continuassero a tormentarlo.
La situazione si era ribaltata in maniera del tutto imprevedibile, ma ancora stentava a credere che fosse tutto vero, e non era sicuro di poterne gioire; si era guardato allo specchio prima di uscire: il lungo cappotto scuro gli arrivava al di sotto delle ginocchia, l’ombrello dal manico in argento identico a quello della guardia del corpo (eccetto che per la fattura più pregiata) gli brillava nella mano, e i guanti rosso bordò in pelle gli tingevano le dita di sangue e lo macchiavano di peccati che ancora non aveva commesso.
Poche ore dal suo arrivo e già si amalgamava alla perfezione con le usanze e le abitudini locali, dava ordini a destra e a manca, si vestiva da signore, e si faceva scortare da un uomo armato che guidava una quattro cavalli a velocità inaudita, superando le paludi e dirigendosi nel cuore della notte verso il pub più vicino; in effetti, aveva in qualche modo corrotto la figura del Lord, e già dimostrava di appartenere ad una massa più povera, numerosa e semplice: quella del popolo.
Era un povero ricco, come tutti coloro che comandavano nella zona. L’unica differenza tra loro e lui era che Brynmor ancora ricordava da dove proveniva, e non si aspettava che la sua fortuna fosse senza fine.
La scelta più saggia, lo sapeva bene, era scappare, andarsene prima che i suoi oppositori più famelici mandassero altre squadre d’assalto per fare pulizia e liberarsi di lui in maniera pratica, infilarsi nelle tasche più gioielli possibile e avvalersi dei diritti acquisiti in seguito alla lettura del testamento per trascorrere il resto della sua vita di rendita.
Avrebbe potuto vendere le terre, vendere la villa, comprarsi un attico a Londra, o in Italia, o in Francia, e passare il resto dei suoi giorni come uno sceicco europeo privo di ideali.
Ed è quasi scontato da dire, ma non poteva farlo; era ormai salito sulla giostra, e non poteva certo saltare giù all’inizio della corsa.
No, doveva arrivare alla fine della faccenda.
Qualcosa dentro di lui lo obbligava a restare, che si trattasse di professionalità, di pura e semplice pietà nei confronti delle ultime volontà di un uomo deceduto, o del semplice desiderio di non abbandonare a sé stessa Lady Irene, figura così terribile e così falsamente forte che lo aveva stregato con i suoi atteggiamenti da ragazzina viziata, ancora non sapeva dirlo.
Guardava la sua compagna di viaggio seduta di fronte a lui, intenta a studiarlo con la coda nell’occhio facendo finta di osservare il buio oltre il finestrino, e sentiva dentro di sé il crescente desiderio di aiutarla, di salvarla dal mondo degli adulti e dei cattivi, in quanto era palese che per quanto assomigliasse ad una donna, per quanto si atteggiasse da donna, per quanto ripetesse alla nausea con ogni sua parola e gesto ‘io sono una donna’, fosse senza alcun dubbio ancora una bambina.
Una bambina sperduta.
L’aveva presa sotto la propria ala in seguito alla lettura del testamento, si trattava di mera formalità, ma tra sé e sé aveva accettato di proteggerla, ed era ciò che aveva comunicato indirettamente all’avvocato stesso; che fosse questo ciò che il barone sperava di ottenere? E se si, perché proprio lui? Come poteva uno sconosciuto che non aveva mai incontrato prima aspettarsi un simile comportamento, o immaginare che sarebbe stata questa la sua decisione?
Nessuna risposta.
Tra i vari dubbi che lo tormentavano vi era tuttavia una piccola scintilla di speranza e felicità: il cappotto che lo aveva trasformato nella nera ed elegante figura del nobile ribelle non lo aveva cambiato, e lo stesso valeva per tutti i suoi nuovi possedimenti.
Era ancora lui, sebbene ricoperto di tessuti costosi e metalli pregiati.
Brynmor era ancora Brynmor, lo stesso giovane detective terrorizzato dalle armi e dall’occhio istintivamente attirato dallo scintillio dell’oro; era ancora simile alla più comune delle gazze ladre.
Faceva girare compulsivamente l’anello metallico attorno al proprio dito, scavandolo e solcandolo fino a incastrarvi il gioiello alla perfezione, e si tastava col braccio il fianco destro per percepire l’orologio da taschino all’interno della propria tasca. Come se non bastasse, tastava i propri polsi alla ricerca dei due gemelli d’argento che aveva rimediato nel proprio armadio; non gli andava l’oro, troppo pacchiano.
Ogni volta che compieva una di queste azioni tirava un sospiro di sollievo.
Lady Irene gli domandò se andasse tutto bene, e lui rispose di sì, ma mentiva.
La surrealtà della situazione gli faceva venire il mal di testa.
Era stato assunto per presiedere ad un funerale, non per succedere ad un ricco studioso eremita che portava avanti una vita priva di contatti con chiunque lo circondasse. Riusciva ad immaginarselo, circondato da decine di persone e costantemente solo, silenzioso, abituato a chiudere la porta del proprio ufficio a chiave per paura che chiunque potesse mettervi piede senza che lui ne sapesse nulla.
Come ho già detto si, Brynmor era sempre Brynmor.
Ma quanto sarebbe durata? Quanto a lungo avrebbe resistito prima di venire lacerato dalla paura e dalla preoccupazione di perdere ciò che aveva appena conquistato?
Quanto a lungo sarebbe rimasto sé stesso, e quando si sarebbe trasformato nel nuovo Barone?
La carrozza si arrestò di colpo, e girando la testa poté inquadrare l’ingresso di una bettola da quattro soldi a malapena illuminata da una luce al neon lampeggiante; diceva ‘aperto’.
“Andiamo

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