17.1 Mistero.

27 4 13
                                    

.1

Gli alberi fischiavano. Chi l'avrebbe mai detto.

Erano le corde vocali della savana, le sue labbra d'erba e i denti d'acacia producevano quel suono acuto e allungato che sembrava non possedere né inizio né fine, lo chiamava a sé come un padrone farebbe col proprio cane da compagnia, o come un'amante col proprio amato, preferiva pensare lui, e lo fissava affamata col suo singolo occhio di fiamme che si alzava piano dall'orizzonte, colorando il paesaggio di rosso sangue e poi di un arancio artificiale e freddo, trasmettendogli la sensazione e il dubbio di trovarsi all'interno di un sogno.

La terra fischiava, ma nessuno ascoltava quel suono. Le antilopi, sempre in stato di allerta, che mangiavano a testa bassa e ruotavano le orecchie facendo finta di niente, tentavano di ingannare il vento; ascoltavano, ma non davano all'aria la soddisfazione di girarsi a guardare. Se lo facevano per abitudine, perché continuare a girare le orecchie? Perché non ignorarlo e basta?

Gonfi cespugli punteggiavano la vallata.

Almeno sembravano cespugli, il senso della grandezza si perdeva da quella distanza; il binocolo lo corresse: non erano erbacce quelle che osservava, bensì palme. Grossi tronchi che spuntavano dal suolo in agglomerati a nove teste che avrebbero fatto rabbrividire le idre mitologiche che aveva studiato da piccolo, y che generavano altre y e disegnavano il corso di fiumi immaginari davanti agli occhi di animali incapaci di apprezzarne la bellezza. Le palme dum.

Ritenute sacre dagli antichi egizi, le sue noci venivano commerciate dagli italiani durante la guerra per produrre bottoni per le divise militari.

E fischiavano.

Le palme fischiavano.

Lo sfavillio di un corso d'acqua qualche chilometro più in basso lo raggiunse, abbagliandolo e infuocandogli il volto.

Da due mesi erano in marcia, una lunga carovana alla ricerca di chissà quale leggenda, giorni passati in silenzio mettendo un piede dietro l'altro pregando di arrivare vivi all'accampamento successivo; l'Africa non li avrebbe perdonati per come la stavano attraversando senza ritegno, senza rispetto, senza fede.

Ma quale fede? Quale delle tante fedi?

Respirò a pieni polmoni, memorizzò l'essenza di quel luogo. L'ultima volta aveva un odore differente, come le altre tappe del loro viaggio.

Ancora sentiva in bocca il sapore del Sahara, sapeva di gomma masticata staccata direttamente dai tronchi aspri e quasi completamente privi di corteccia, sapeva di sete, polvere e sabbia, di cuscus condiviso dagli Imazighen, i Berberi, che li avevano ospitati per due settimane. Portava ancora addosso l'odore del Marocco, e nella memoria non lasciava morire il ricordo dei suoi colori.

Continuava a pensare al Sahel, la Savana Spinosa, che avevano attraversato con così tanta difficoltà.

Ripensava ai leoni, che si avvicinavano sempre di più, e li fissavano pazienti da lontano passandosi la lingua sui baffi e sui grossi canini acuminati e candidi; la loro dieta di morte li teneva in forma. Non sapevano che l'uomo che cacciavano seguiva i loro stessi princìpi alimentari.

"Bryn" esclamò l'uomo.

"Mr. Kurtz?"

"Come ti sembra?"

"Migliore del posto in cui ci siamo accampati ieri"

"Migliore?"

"Qui c'è acqua, per esempio"

"Acqua significa più animali, più animali significa più pericolo"

"Immaginavo avrebbe detto qualcosa di simile"

Il Caso MaghnetDove le storie prendono vita. Scoprilo ora