Capitolo 1

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Dai, vieni fuori, trappola,
che facciamo un bel gioco:
ti monto in groppa un poco,
poi ti annodo la coda
in un nodo alla moda,
ti strappo qualche pelo,
ti tiro scarpe al volo,
ti porto sopra il fuoco,
non ti sembra un bel gioco?
Dai, vieni fuori, trappola!

-Roberto Piumini-


Manicomio=ma-ni-cò-mio

Sostantivo maschile.

Ospedale psichiatrico, in una accezione particolarmente negativa.

-Manicomio giudiziario,manicomio criminale. Denominazioni usate un tempo e sostituite dal 1975 con quella di ospedale psichiatrico.

-Roba da manicomio, di fatti paradossali e sconcertanti.

-E' un manicomio, di luogo in cui regni una confusione esasperante.

Incongruenza bizzarra e divertente

-" Né cessava d'intrigarmi il dolcissimo manicomio dei suoi pensieri"

Prima di quella notte anch'io ho definito così il manicomio: un posto per i matti. Dopo ho iniziato a definirlo "casa".

Decido di fare un giro nei luoghi esclusi di questa città così bella di giorno e così terrificante di notte. Dopo essermi sistemata meglio lo zaino, quasi vuoto, sulle spalle esco e vado ad aspettare il tram. L'aria è fredda, l'inverno sta per arrivare. Famiglie sorridenti programmano vacanze sulla neve e visite ai nonni e agli zii. La mia no. La nostra non si può definire una famiglia. I fari accecanti della vettura mi investono e poco dopo le porte si aprono facendo uscire un' onda di profumi e sudori che, mischiati, creano un odore nauseabondo. Metto la musica e mi teletrasporto in un sogno ad occhi aperti: sono in una cucina con i mobili in legno, grandi fornelli ed un bellissimo forno. Un dolce odore di cannella si mischia all'odore della mimosa dentro al vaso che uso come centro tavola. Tiro fuori dal forno una torta di mele, la sistemo in un piatto e continuo a girare la polenta. Il sugo sta cuocendo con la salsiccia mentre il gorgonzola si fonde con calma. Sorrido e, dopo aver spento il fuoco sotto la pentola, inizio a preparare un'insalata di verza, noci e pere. «Signorina, vuole scendere? E ' l'ultima fermata...se no io torno indietro», sento dire dal conducente. Mi sono fatta prendere così tanto dal mio sogno che non mi sono resa conto di essere arrivata. «No, mi scusi, scendo qui». Sorrido all'autista e salto velocemente sul marciapiede. Conosco questo posto per sentito dire, la periferia di Trenton, città definita molto pericolosa, piena di assassini. Canticchio tra me e me, stringendomi nel cappotto, mentre seguo la strada principale, evitando vicoli strani. So esattamente dove devo andare. Fondato da Dorothea Dix Lynde il 15 maggio 1848, è stato il primo ospedale psichiatrico pubblico, nello stato del New Jersey. La scritta TRENTON STATE HOSPITAL in ferro battuto, ormai arrugginito, si è staccato e pende dal lato sinistro, creando un odioso cigolio. Il vento passa in mezzo agli alberi ululando delicatamente, come un richiamo.

Sento delle risate, vengono da un punto vicino a me, ma indefinito. Decido di dirigermi verso la porta. Dicono che questo posto sia infestato da fantasmi, che delle persone hanno invocato Satana e gli hanno dato il corpo di una giovane vergine come sacrificio. Voglio vedere questi spiriti, trovare quei corpi. Dopo aver fatto una leve pressione la porta si apre creando uno stridio simile alle unghie sulla lavagna che mi fa accapponare la pelle. Entro in una stanza semibuia con al centro un bancone rovesciato. Fogli sparsi, cartelle cliniche, scatole e fotografie ricoprono il pavimento chiazzato di sangue secco. Le pareti sono invase dalla muffa e da mani insanguinate trascinate verso il basso. Forse, quelle leggende non sono solo leggende. Magari qui davvero è stato richiamato il demonio, delle vergini sono realmente morte, gli spiriti.. sono le anime in pena di quelle persone che erano chiuse dentro questa prigione. Non si possono definire "ospedali psichiatrici" luoghi in cui alle persone venivano amputate parti del corpo soltanto perché si riteneva che danneggiassero il malato. Mandare scosse elettriche al cervello del paziente per curare la sua depressione rompendogli denti e ossa ed inducendogli crisi epilettiche. Quelle non erano persone, erano folli portati alla via del non ritorno. Quelli non erano ospedali erano prigioni, corridoi tra la cella ed il patibolo.

Faccio qualche passo per la camera nonostante il tremolio che ha attenagliato le mie gambe. . Mentre mi avvicinoad un corridoio stretto noto che ci sono delle luci... questo posto dovrebbe essere nel buio totale, qui non dovrebbero esserci luci,solo ombra.

Tento di guardare oltre il corridoio, non sono molto sicura di voler andare fino in fondo con il mio bisogno di sapere la verità su quelle favole... dopotutto, magari, sono solo cose inventate dai genitori per impedire ai figli di venire in questo posto, oppure storie create dai ragazzi più grandi per essere sicuri che non ci fossero ragazzini a disturbarli. Forse, però, dovrei andare... alla fine, se incontrassi dei ragazzi più grandi mi direbbero di levarmi di torno, ma se ci fossero degli spiriti..? beh... potrei scappare, sarebbero anime di mezzi matti, giusto?. Faccio un respiro profondo ed inizio ad andare incontro alle luci mentre mi torna in mente la frase di Gollum nel "Signore degli Anelli" quando dice a Frodo:«NON SEGUIRE LE LUCI», ma lui non gli aveva dato ascolto, era caduto in acqua e gli spiriti lo avevano circondato, sarebbe morto se non fosse stato per Sam, che lo aveva riportato sulla terra ferma. Io sto seguendo delle luci, ma, se gli spiriti mi attaccassero, non avrei nessuno a salvarmi.

Continuo a percorrere questa corsia che sembra infinita. Le risate che sentivo prima sono aumentate, ora sono più nitide e chiare.

Ultimo cero. Ultima porta. Davanti a me un muro con scritte senza un senso logico, ripetute una attaccata all'altra in un colore nero, grattato via, suppongo, con le unghie. Sulla destra si trovano delle scale illuminate da piccoli lumini colorati e, dopo queste, un cancello pieno di ruggine . salgo le scale di fretta, le risate che sentivo fino a poco fa sono cessate completamente. Ora solo un cupo silenzio accompagna il rumore dei miei passi. Il corridoio in cui arrivo è simile a quello precedente, dei ceri illuminano i numeri in successione delle camere: 101; 102; 103... sono tutte chiuse a chiave oppure completamente distrutte. I malati venivano suddivisi in tranquilli e puliti; semi agitati; suicidi e distruttori tranquilli;deliranti agitati, rumorosi e pericolosi. Ogni gruppo aveva un tipo di ambiente diverso, suppongo fossero divisi per piano. Mi guardo intorno e noto su una targhetta piena di polvere e ragnatele la scritta <<tranquilli>>. Decido di entrare in una stanza, per ora non sono ancora stata assalita da spiriti nè il mio corpo è stato dato come sacrificio a Satana. Mi introduco nella stanza spingendo di poco la porta che subito emette un assordante suono che fa accapponare la pelle. Resto immobile qualche secondo, come per paura di aver disturbato la persona al suo interno, anche se,ovviamente, non c'è nessuno.

La stanza è illuminata dalla luce lunare che filtra da una piccola finestra sbarrata. Sopra una vecchia griglia è posato in modo scomposto un materasso distrutto dal tempo: le molle fuoriescono in alcuni punti, mentre in altri è stato lacerato. Vicino a quest'ultimo si trova un comodino rovesciato, pieno di graffi e di morsi... e pensare che qui stavano le persone tranquille... mi dirigo verso il  centro della stanza per andare alla finestrina ma mi blocco a metà: qualcosa di freddo e viscoso mi cade sulla guancia e scivola fino ad arrivare al mio collo in una lenta corsa, subito seguito da altre piccole gocce. Alzo lo sguardo e mi trattengo dall'urlare: "Speriamo che la tua famiglia salutato avrai, perché mai più la rivedrai".

Leggo questa frase prima nella mente, poi provo a ripetermela a voce,ma quella che sento non è la mia: è stridula, canticchia la frase come una filastrocca imparata da bambino. volto lo sguardo verso il luogo di provenienza di quella voce, sotto il letto. Lo vedo uscire, poi tutto si fa buio. Sento delle risate intorno a me.

***

La testa mi pulsa, il corpo mi fa male e mi sento come se avessi dormito per intere giornate sopra un'asse di legno. Provo ad aprire gli occhi ma mi accorgo solo ora che sono coperti da una benda nera. Faccio un respiro profondo ed inizio a prendere coscienza del mio corpo attraverso i sensi. Devo avere polsi e caviglie legati con qualcosa di tagliente, sento la pelle bruciare ad ogni minimo movimento. Come sono finita così e dove sono?. Inizio a sforzarmi di ragionare... la stanza; la frase; il letto; quella vocina cantilenante e quelle risate. Ora sono immersa nel silenzio totale, non un alito di vento,non un sussurro. Resto in questa posizione per minuti, forse ore, ma magari il tempo passa così lentamente solo per me, rinchiusa in una trappola, che per ogni movimento fa affondare nella mia carne qualcosa di affilato. Una tortura infinita.


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