Capitolo 7

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"io volevo tanto vedere l'esotico Vietnam,

il gioiello dell'Asia orientale.

Io volevo incontrare gente interessante, stimolante,

con una civiltà antichissima...

e farli fuori tutti"

-Matthew Modine-

La pelle rossa e piena di bolle brucia. Le braccia e le gambe, ora libere dalle catene, azzardano lenti movimenti. Gli occhi pizzicano mentre tentano di trattenere lacrime di dolore. La mente si affatica nel tentare di ricordare come tutto sia iniziato.

Stavo vagando per i corridoi di questo posto, imbattendomi in sedie elettriche e tavoli operatori che servivano per "curare" il malato, mentre a parer mio servivano per rendere il malato ancora più malato, quando ad un tratto ho sentito un colpo sul collo e tutto è diventato buio. Ho sentito il mio corpo che veniva trascinato a peso morto per un corridoio, sentivo delle risate maniacali, il mio cuore battere, il cervello che tentava di far reagire i muscoli; di fargli emettere anche solo un minimo movimento ma inutilmente. Le loro risate crescevano e si alternavano con voci serie, mi arrivavano calci e sputi. Mi hanno sollevata per la prima parte di una scalinata mentre per l'altra metà mi hanno fatto rotolare facendomi emettere gemiti sommessi a cui rispondevano con risate ancora più forti.

Dopo tre o quattro piani fatti così riesco finalmente ad aprire lievemente gli occhi, in tempo per vedere lo stivale che affonda nella mia pancia e mi spinge per la rampa di scale: ogni scalino un colpo sempre più doloroso. Immagino la pelle, sotto i vestiti, diventare prima rossastra e poi via via sempre più viola fino a diventare nera. Mi sollevano per le braccia, uno da una parte e l'altro dall'altra. Riesco a socchiudere gli occhi e a vedere davanti a noi una porta, non la solita porta rossa con la scritta nera, questa è in legno vecchio con sopra delle sbarre di ferro arrugginite. Oltre il portone c'è l'entrata del manicomio. Sono fuori, perché mi stanno portando fuori? La scritta cigola mentre una lieve brezza mi muove i capelli. «Eccola, allora... cosa vuoi farne di lei?», chiede la voce stanca di un ragazzo mentre le mani che reggevano il mio corpo mi mollano facendomi andare faccia a terra e aumentando i miei gemiti di dolore, «porta pazienza caro, non c'è fretta... e ora... accendi il fuoco». Fuoco... il fuoco brucia le cose, brucia la pelle, cuoce la carne, trasforma le ossa in cenere. E così è questa la fine della storia. La povera ragazza scappata di casa e resa prigioniera di tre assassini muore al rogo. Erano indecisi sul farmi entrare in famiglia... hanno scelto.

Sbatto le palpebre, sforzo le braccia per riuscire a tirarmi su, a mettermi in ginocchio e recitare una delle poche filastrocche che ho imparato da bambina, la filastrocca del carnevale. In ginocchio davanti al cielo, davanti al mio boia, inizio a recitare con voce sommessa:

«Se a Pulcinella il comando fosse dato,

invece del fucile darebbe a ogni soldato una grande chitarra,

con l'ordine: a suon di musica si faccia ogni battaglia.

Se Arlecchino avesse lui il potere,

non ci sarebbe più niente da temere: si risolve ogni questione con un buon bastone.

Ma con quello, si sa, di plastica colorata, che invece di far male fà fare una risata».

Alzo gli occhi e noto che le tre persone sono rimaste immobili a fissarmi sbalordite, come se non avessero mai ascoltato nulla del genere nella loro vita. Dopo un momento di esitazione però iniziano a ridacchiare sommessamente mentre preparano un tavolo di ferro sopra il falò che hanno acceso poco fa.

«Io sono la fiamma,

di rosso vestita,

che fischia e scoppietta,

che sibila ardita,

che lesta serpeggia,

che alzandosi fugge.

Io sono la fiamma, che tutto distrugge.

Io sono la fiamma che sprizza faville, che aspira, s'innalza, che schizza scintille.

Che scalda, che cuoce, che splende, che fuma. Io sono la fiamma che tutto consuma»,

recita la voce dell'uomo, resa roca dal fumo, prima di venire verso di me e, dopo avermi sollevata, sdraiarmi sul tavolo, che si stava iniziando a scaldare, lo sento legarmi le braccia e le gambe con delle catene. «E' ora. Ahahah dopo tante attese ora posso finalmente farlo. Sai piccolina come si marchiano i cavalli? Eh, lo sai? Ahah si! Si che lo sai, tutti lo sanno ahah. Si marchiano con un ferro ardente, viene scaldato e poi premuto sulla loro pelle. Sai cosa farò io ora con te? Ti marchierò come se fossi il mio pony ahahah già, il mio pony», la voce femminile sussurra queste parole vicino al mio orecchio pizzicandomi le guance e le spalle. Il tavolo sotto di me sta diventando troppo caldo perché la mia pelle non si scotti. «Bene, è tutto a posto. Psycho... inizia pure», dice una voce non troppo lontana. Dopo quella frase passa poco tempo prima che delle mani mi strappino di dosso i vestiti, in modo da lasciare il calore direttamente a contatto con la pelle, senza coperture. Una risata breve e isterica anticipa il ferro bollente che viene premuto sul mio braccio destro facendomi gridare di dolore misto a sorpresa. Più io grido più loro ridono. La pelle a contatto con il tavolo sta iniziando a bruciare lentamente. Il ferro si posa sulla pelle della mia pancia, delle guance, delle cosce e dei polsi. Le grida si fanno sempre più struggenti, le risate più forti e le forme meno chiare fino a sparire del tutto.

Mi risveglio in corridoio, davanti alla porta della mia camera. Le ustioni sono diventate bolle sopra i lividi dovuti alle scale, il mio corpo grida straziato dal bruciore che lo invade dalla testa ai piedi. Provo a sollevarmi ma le gambe cedono al dolore e ritorno a terra. Mi trascino verso il letto, verso la finestra, cercando aiuto tra quattro mura vuote.

Il manicomioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora