Il nome della Fenice

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PROLOGO.

Il freddo era pungente e la pioggia batteva da ore, senza interruzione, sui tetti della cittadina di Beeston, quel pomeriggio di ottobre. Prendendo con rabbia il bicchiere di limonata appoggiato sul tavolino del bar, Ruby Aliène si ripeté che quella era stata veramente una pessima giornata. Lei e il suo ragazzo, Peter, avevano litigato (non che solitamente la situazione fosse diversa, ma lei sperava che, almeno il giorno del loro terzo anniversario, lui potesse comportarsi in modo diverso); per uscire con lui, per di più, aveva dovuto litigare fino alle lacrime con sua madre e, visto che la donna, a causa della pioggia, già allora fitta, si era rifiutata di accompagnarla in centro, aveva dovuto prendere (ovviamente senza permesso) la moto di suo fratello, nonostante il tempo ben poco promettente e adatto alle sue capacità di guida. In sintesi, nessuno l’avrebbe accolta a braccia aperte, una volta tornata a casa.

Un cameriere le si avvicinò lentamente e con garbo, d’un tratto. - Desidera altro? - le chiese.

- No, grazie - rispose la ragazza, posando il bicchiere sul tavolino.

- Bene, allora questo sarebbe…il conto - fece l’uomo, imbarazzato, porgendole uno scontrino.

Ruby sbuffò, cercando di trattenere un’imprecazione: adesso le toccava anche pagare. Aprì il portafoglio e porse i soldi al cameriere, lasciandogli anche qualche sterlina di mancia, poi si alzò e fece per andarsene.

- Signorina, se permette - fece il cameriere - Il tempo è davvero terribile; fossi in lei, aspetterei, prima di tornare in moto. Non è…sicuro -.

<Non si preoccupi, so come si fa> rispose la ragazza, stizzita.

Detto così, si avvicinò alla moto e, indossato il casco, tentò di far partire il motore, che, come al solito, non dava segni di vita. Sbuffando ancora, alzò gli occhi al cielo e lasciò che la pioggia le scendesse lungo il viso, per andare a confondersi con le lacrime.

Abbassò di nuovo lo sguardo e notò, d’un tratto, qualcosa di luccicante accanto alla ruota anteriore. Si chinò e la strinse, osservandola: era una catenina dorata alla quale era appeso un piccolo ciondolo dorato, che sembrava richiamare la forma di un sole. Non sapeva perché, ma si sentiva stranamente attratta da quell’oggetto. Assicurandosi di non essere osservata, lo indossò, nella speranza che quell’oggetto all’apparenza insignificante servisse a rendere meno terribile quella giornata. Dopo un ultimo tentativo, il motore si accese e, dopo esser salita in sella, Ruby partì.

La pioggia si era fatta più fitta, sembrava formare quasi una nebbia, ormai. Ma Ruby non aveva problemi, anzi, era certa di essere andata in moto con condizioni climatiche peggiori; era vero, quelle volte era sempre suo fratello a guidare, ma cosa importava? In quel momento, aveva solo bisogno di tornare a casa. Tornare a casa, buttarsi sul letto e accoccolarsi sotto le coperte e piangere fino a non avere più lacrime da versare, fino a dimenticare quell’idiota di Peter, che continuava a non portarle altro che sofferenza; piangere fino a stare di nuovo bene. Mancava poco, ormai. Una curva, solo una curva. Ruby era sul punto di imboccarla, quando i suoi occhi furono colpiti da un fascio di luce così intenso da accecarla, fino a farle perdere il controllo del mezzo. Trattenendo il fiato per la paura, cadde a terra, assieme alla moto, che le finì addosso, con tutto il suo peso. Mentre il casco scivolava via dalla sua testa, la ragazza percepì nitidamente la rottura di qualcosa, nel suo corpo, e sentì un liquido caldo scorrerle lungo il collo. Vide un uomo avvicinarsi al suo corpo e scuoterla con forza; lo vide toccarle il polso e mettersi le mani tra i capelli, disperato. Lo vide toccare ancora il suo corpo, ma, ormai, non era più in grado di sentirlo. Mentre tutto diventava nero e le sue forze si esaurivano pian piano, portandola a far scendere con una lentezza quasi impercettibile le palpebre, si rese conto di essere morta.

Ruby aveva solo diciannove anni, ma, per un motivo o per un altro, si era spesso fermata a pensare a come sarebbe stato morire, a cos’avrebbe provato. Ora che ci si trovava, era, in un certo senso, delusa. L’aveva immaginata in modo decisamente diverso, la morte. Aveva sempre pensato ad una camminata piena di luce, in direzione del Paradiso, o ad una rovinosa caduta tra le fiamme, in direzione dell’Inferno. Niente di tutto questo accadde. Era solo…nero. Tutto nero.

Passò del tempo (o, almeno, lei era convinta che stesse passando), e il nero iniziò ad avere degli strani contorni di luce, sempre più grandi. Il Paradiso, forse? Improvvisamente, Ruby percepì chiaramente di stare battendo le palpebre. Inspirò profondamente e, con sua grandissima sorpresa, alzò il busto. Si portò una mano al collo e, terrorizzata, tastò una lacerazione che le arrivava fin sotto la mandibola. Con suo grande stupore, al tocco delle sue dita, questa si rimarginò in fretta.

Lentamente, si alzò e si guardò intorno: davanti ai suoi occhi c’era la moto di suo fratello, coricata da un lato e carica di ammaccature, col casco, pochi passi più avanti, ridotto completamente in frantumi; poco più in là, un grande camion, messo di traverso e, lì vicino, l’uomo che le si era avvicinato prima, col cellulare appoggiato all’orecchio ed intento a compiere grossi movimenti concitati con le braccia.

Si voltò, d’un tratto, e la guardò sorpresa.  -No, aspettate…si è svegliata! - esclamò, correndo verso di lei.

Ruby sentiva la testa pulsare, come se fosse sul punto di scoppiare e, delle tante parole che l’uomo le rivolse, sentì solo “venga, l’accompagno all’ospedale”.

Terribilmente dolorante, coi capelli castani tinti di sangue e gli occhi chiari pieni di lacrime,  salì a bordo del camion, incapace di trovare una spiegazione logica a quello che era appena successo.

Il nome della FeniceWhere stories live. Discover now