Capitolo VII.

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- Bene - iniziò Aireen, dopo aver inspirato profondamente - Come avrai sicuramente già avuto modo di vedere, noi Fenici non moriamo. O meglio, sentiamo il dolore della morte, la viviamo, per quanto possibile, e poi torniamo senza aver traccia alcuna di quest’esperienza, se non il dolore stesso, che rimane per un po’. Vorrai sapere il perché di tutto questo, come è ovvio che sia, ma mi dispiace dirti che, nonostante la miriade di anni che ho passato su questa Terra, non so darti una risposta. Non so se James te l’ha spiegato, ma noi Fenici non ci limitiamo a non morire, o meglio, sì, ma in un senso più ampio: potremmo vivere per sempre, senza che il tempo lasci un segno su di noi. Difatti, io sono esattamente identica al giorno in cui sono morta, e lo stesso sarà per te. Sembrerà una bella cosa, ma ha molti lati negativi, che magari ti spiegherò più tardi. Aireen non è il mio vero nome. Col passare del tempo spesso ci si annoia della routine, delle abitudini, e quindi si cambia tutto, nome, storia, identità…a volte anche per questioni di necessita, a dirla tutta. Il mio nome era Irene de’ Lollis e nacqui nella Repubblica Pisana, in Italia. Mio padre era un uomo molto conosciuto in città, in quanto ricco padrone di un laboratorio tessile che lavorava tessuti provenienti da…sai una cosa? Non ti annoio con tutti questi dettagli, finiresti per non capirci niente. E poi non sono significativi per quanto riguarda la tua comprensione dell’intera questione. Quel che è importante che tu capisca è che mio padre era un uomo molto più che benestante, ben conosciuto in città. Era noto, soprattutto, per la sua filantropia, chiamiamola così…in realtà altro non erache esibizionismo, il suo, desiderava con tutte le sue forze che le sue ricchezze fossero conosciute da tutti. All’epoca non c’erano i giornali con la lista dei più ricchi del pianeta, quindi non poteva far altro che passare le ore più affollate della giornata a ricoprire di monete i mendicanti dell’intera città. Ed io e mia madre facevamo lo stesso. Avevo solo sedici anni, quando intravidi, nascosto nella penombra, un uomo che mi sembrava estremamente sporco. Mi avvicinai, e presto mi accorsi che lo sporco, in realtà, era sangue. Inorridita, feci per chiamare aiuto, ma l’uomo mi fece segno di tacere e di avvicinarmi. Non so ancora oggi il perché, ma obbedii e, non appena fui abbastanza vicina da non far scorgere ad altri la sua figura, l’uomo mi prese una mano e ci lasciò cadere la collana col ciondolo a forma di foglia, che ancora oggi porto. Ero stranita, insomma, ero andata lì per dargli qualche moneta e invece avevo ricevuto un gioiello, non mi pareva corretto. Infilai la mano nel sacchetto in cui tenevo le monete, per dargli qualcosa, per ripagarlo, almeno, ma l’uomo scosse la testa e mi fece cenno di andar via. Non sapendo che altro fare, indossai la collana e continuai il mio giro di perlustrazione. La indossai per molto tempo ancora, ignara di quell’effetto che conosci anche tu.

Sette anni dopo non avevo ancora un marito, e per mio padre questo era un gran dolore, ma, pur essendo molto dispiaciuta per il mio comportamento, sentivo di essere diversa dagli altri, più libera. E poi, detto tra noi, lui non faceva altro che presentarmi vecchietti straricchi, sono certa che potrai ben comprendere il mio rifiuto. E a questo si aggiunge un certo…interesse, ecco, che nutrivo per un giovane di nome Luigi, da poco giunto a Pisa. Sono certa che mio padre avrebbe apprezzato il matrimonio anche con lui, pur di non scatenare dicerie, ma questo, ovviamente, non era possibile, visto che Luigi era un frate. Ti prego, non pensar male: ti assicuro che quello lì di fare il frate non ne aveva proprio voglia. Infatti, più e più volte mi aveva fatto capire che provava un certo interesse per me, cosa assolutamente reciproca, visto che lui era estremamente carino e gentile, cosa assai rara per quei tempi. Ci capitò, una sera d’estate di quell’anno, di essere completamente soli e…puoi ben immaginare cosa accadde. La storia si ripeté più e più volte, senza alcun problema (e senza, perdona l’acidità, una qualche promessa da parte sua di abbandonare quella che lui ancora definiva “vocazione”). Poi arrivò settembre, con le piogge scroscianti e il freddo. Vedersi diventava sempre più rischioso, vista l’orda di pellegrini che giungevano in chiesa, ma a noi non importava, era sempre andato tutto bene, dopotutto. Finché non fummo trovati, durante una notte, abbracciati e nudi; una situazione imbarazzante, per entrambi. Svegliatosi, Luigi si affrettò subito a piangere e a gridare che col ciondolo che indossavo l’avevo stregato e costretto a fare quel che si vedeva. Fui processata e condannata per stregoneria nel giro di tre giorni; a nulla valsero i miei tentativi di difesa. Anche la mia famiglia mi aveva voltato le spalle, mio padre, anzi, aveva usato l’espediente della stregoneria per giustificare il mio matrimonio non ancora avvenuto. Dopo aver immerso il mio ciondolo nell’acqua santa, per annullare il suo potere, me lo rimise al collo Luigi stesso, mentre io mi dimenavo per fargli del male, confermando, ahimè, che sciocca che ero, la sua versione. Fui messa al rogo. Bruciai per tredici ore e poco più, sentii l’inferno stesso penetrare nelle mie ossa, mentre tutti quelli che mi conoscevano stavano a guardare. Piangevo, ma le mie lacrime non toccavano terra, il fuoco le asciugava.

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⏰ Last updated: Dec 04, 2014 ⏰

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