12. I'm gonna run the slow dawn awake.

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Arrivo a casa e mi lascio cadere sul letto. Erano sei mesi che non passavo di qua. Non mi sento a casa per davvero, non c'è niente che percepisca come mio. Ogni stanza è invasa da scartoffie inutili, ritagli di giornale, articoli su di me, dischi, foto, vestitini per neonati.

Rimango immobile per due ore, a guardare il vuoto e cercare di riordinare le idee nella mia testa.

Cerco di ripensare ai miei ultimi sei mesi. Mi spavento quando mi accorgo che non riesco a pensare a niente.

Non mi ricordo di un solo luogo in cui siamo stati. Non mi ricordo dei miei live strepitosi. Non mi ricordo di essere riuscito a comporre una sola fottutissima canzone nuova da quando siamo partiti. Non mi ricordo un solo nome, un solo viso delle donne che mi sono scopato.

So benissimo perché sono ridotto così.

Questa non è la mia vita. Non è il mio mondo. Non sono tagliato per fare la rockstar e l'ho sempre saputo.

Io sono felice nella mia villetta a due piani, senza televisore a schermo piatto e senza pretese. Sono felice al Dusty Den, all'Interzone. Sono felice a casa di Dawson e in un garage scassato di periferia. E sono andato a cercare altra felicità in altri luoghi, in altri mondi che non sono adatti a uno sfigato come me.

Una volta realizzate queste cose, mi sento meglio.

Scatto in piedi, preso da una nuova frenesia.

Raccolgo tutte le cose inutili che trovo e le butto in giardino.

Fra le mie mani scorrono tabloid inglesi da titoli insopportabilmente idioti, del tipo "Alex Caviezel: Hotter than Hell", foto di me e Debbie, foto di Debbie, dvd dei miei concerti, lettere d'amore delle fan, statuine di plastica che mi raffigurano con una testa spropositatamente grande e ondeggiante. Risparmio una cosa sola: un articolo di giornale sul mio concerto all'Interzone. L'immagine è abbastanza grande, e ci siamo io e Nereide completamente avvolti dalla luce e dalla musica. Piego il foglio ingiallito e me lo infilo in tasca, poi cospargo tutte le scartoffie di benzina e do fuoco a quell'inutile ammasso di stronzate.

Non è un incendio, è a malapena un falò da scout, ma sono soddisfatto. Quando il fuoco inizia a languire e si trasforma in misere braci puzzolenti, esco in strada, lasciando la casa aperta.

Sono le quattro del mattino. Inizio a camminare.

Stavolta so perfettamente dove sto andando.

Il cielo inizia a rischiararsi lentamente. E', come al solito, grigio polvere e deprimente. La periferia non ha un bell'aspetto sotto questa luce malata, tra macchine bruciate e spazzatura abbandonata per strada.

Non è difficile ritrovare la casa che sto cercando: quando mi trovo davanti al Giardino Più Orrendo di tutti i giardini orrendi, capisco di essere arrivato.

Sollevo lo sguardo e scruto nella penombra dell'alba. Per un attimo provo un cieco terrore, quando non riesco a distinguere niente nell'erba scura.

Poi una piccola luce rossa divampa: la brace di una sigaretta.

Ricomincio a respirare. Sorrido e nel frattempo il cielo si fa più chiaro.

Nereide è lì e mi scruta, ovviamente senza stupore. Semmai sembra perplessa e un po' diffidente.

Il suo corpo bianco ora spicca contro lo sfondo scuro della casa malconcia e sembra avere riflessi argentei.

Non ha coperte avvolte attorno a lei stavolta, perché è estate e non fa freddo; i suoi capelli arruffati e lunghissimi sono l'unico manto che la ricopre.

E' sempre lei, la mia ninfa del mattino, la mia pornobimba, più grande di sette mesi, forse finalmente maggiorenne, ma comunque lei, inalterata, incastonata come un gioiello in quel giardino opaco e in quell'ennesima alba sbiadita.

Mi fa un cenno di saluto sollevando appena il mento. Io mi stringo nelle spalle e rispondo alzando la mano. Sto ancora sorridendo, ma non oso muovermi. La luce aumenta ancora impercettibilmente.

Dopo un istante infinito, anche lei sorride, col suo sorriso vago e indecifrabile. Allunga una mano e mi indica lo spiazzo erboso e vuoto alla sua sinistra.

Vado a sedermi al suo fianco e mi stringo contro il suo corpo esile e caldo.

Non c'è più bisogno di dire una sola parola.

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