VII

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8 ottobre 2013.
 
L’ho – l’abbiamo – cantata quel pomeriggio.

Ci vedemmo al pub alle sei in punto, come da programma: fuori scendeva una pioggerellina malinconica e grigia, ma il calore degli alcolici, delle patatine fritte, e del mio cuore che batteva incessantemente, non lasciava spazio al freddo. Ci sedemmo in un angolino appartato, poco lontano dal camino.
Louis mi fece strada, avvolto in un pesante cappotto nero, un beanie rosso poggiato stancamente sulla testa e le ciocche dei capelli incolti che gli ricadevano sugli occhi.

Tutto sommato, mi chiedevo se avrei dovuto dirgli del tumore: ci conoscevamo appena, sì, ma per me era una persona importante. Era quel qualcosa che alla mia vita mancava, che dava un senso. E fidatevi, fa male sentirsi incompleti. Ed io, io per lui cos’ero? Valeva la pena di confessare ad un ragazzo qualsiasi il grande dolore che affliggeva e rischiava di spezzare la mia vita? Ero abbastanza importante per lui? Avrebbe accettato? Avrebbe capito? Sì, Harry, l’avrebbe fatto. E ti avrebbe anche amato.

Ci sedemmo, una birra per ciascuno, e passammo qualche minuto a contemplarci: Louis era sempre bello, anzi, lo era ancora di più, col volto bagnato dalla pioggia. Era l’arcobaleno, la quiete dopo la tempesta.

“Sono felice di vederti.” Alzò il volto dal suo bicchiere, mi fissò intensamente, e vidi i suoi occhi illuminarsi, le labbra aprirsi. Sorrideva. Ed io mi sentivo vivo.

“Anche io, Harry. Veramente tanto. Sai, quando non mi hai chiamato pensavo volessi evitarmi e ci sono stato male, sono onesto; non so, forse per te sono solamente Il Ragazzo Conosciuto Al Parco, ma per me non è così. Hai qualcosa, Qualcosa con la Q maiuscola. Qualcosa che mi piace, che vale la pena d’essere scoperta.”

D’un tratto, il pub sembrava caldo, molto più caldo.
Sorrisi anche io, le fossette bene in vista, gli occhi vivi che solo Louis sapeva ormai accendere.

“Non ti ho chiamato solo perché ho perso il biglietto col tuo numero, altrimenti, credimi, non mi sarei staccato un attimo dal telefono.” Era la verità, o, almeno, lo era parzialmente: volevo nascondere la parte peggiore di me a quella migliore.

Vidi il suo volto illuminarsi, mentre si mordicchiava il labbro.
“Mi piace stare con te.”

“Anche a me, tanto.”

Finimmo le birre, chiacchierando del più e del meno; mi raccontò della sua vita: ventidue anni da compiere, un impiego in un negozio di giocattoli in centro, la passione per la musica ed un paio di storie d’amore alle spalle, che poi d’amore vero non erano. Non era mai stato una cima a scuola, quindi si era accontentato di un semplice diploma, e via! Pronto a godersi la vita.

“Ma non è sempre facile” mi aveva detto “vivere non è una passeggiata.”
Ed io, meglio di chiunque altro, potevo capirlo.

Pagammo il conto – dopo una discussione lunga ed accesa, decidemmo di fare a metà – ed uscimmo nella sera frizzantina.

“Buon Dio, qui si gela! Ma cosa diamine è, il Polo Nord?” Scoppiammo a ridere, i respiri che si condensavano in cumuli argentei.

Ero innamorato di lui? Sì, anche se lui non lo sapeva.
Era innamorato di me? Sì, anche se io non lo sapevo.

“Ti va se andiamo da me?”

“Assolutamente.”

Camminammo per un paio di minuti, in un pomeriggio immobile e gelido, scambiandoci battutine e pensieri con più o meno senso.

“Eccola, è la casa in fondo a destra.” Una piccola villetta, in perfetto stile inglese, si stagliava lungo il viale; risalimmo il vialetto e Louis iniziò ad armeggiare con le chiavi.

don't forget about me; houisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora