Capitolo 2

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29 Novembre 2001. Indimenticabile. L'Istituto Comprensivo "P." in uno dei quartieri più a rischio della periferia di Taranto. Inimmaginabile ciò che mi sarebbe potuto accadere lì dentro. Chiesi della classe e tutti, nella reticenza professionale, mi rispondevano "Eh ... insomma, così ... un po' più scalmanata delle altre!" Vabbè, pensai io, vista una viste tutte. E me ne andai un tantino perplessa verso il mio destino. Lungo il corridoio incontrai il vice-preside.

"Mi scusi, una cosa ho dimenticato di chiederle, i libri di testo ..."

Ma lui mi stroncò sul nascere: "Perché lei Professoressa, crede davvero di "insegnare", qui dentro?"

Ed io "Bè, mi avete chiamata per questo!" e mi lasciò nel dubbio più apprensivo che potessi avere. Mi avvicinavo alla classe, la I C, e più mi avvicinavo per il cambio dell'ora più speravo non fossero quelli che vedevo fuori, i miei futuri alunni. La paura cresceva e il cuore ormai mi diceva che la frittata era fatta. L'aula dove sarei dovuta entrare era praticamente vuota, la collega alla quale avrei dovuto dare il cambio mi venne incontro con l'aria sconvolta e mi salutò cordialmente ma allo stesso tempo sembrava mi stesse facendo le condoglianze. Dalle poche parole che ci scambiammo, oltre le presentazioni, capii tutto.

Insegnare lì dentro significava "tenerli in classe". Come fare per non far scappare dall'aula quei pischellini di 11 anni che sfuggivano da tutte le parti, che neanche all'appello volevano rispondere, che non avevano né libri né quaderni né penne né ... zaino? Venivano a scuola solo perché costretti, ma le monellerie che avrebbero combinato per strada le facevano a scuola, nei corridoi, nelle altre classi, in giro per la scuola.

Cercai di farli entrare in classe. Imparai a sbarrare la porta con la cattedra davanti, ma tutto sembrava inutile, rincorrerli per la classe era una sconfitta. Non era quello il mestiere che avrei voluto fare.

Dovevo ingegnarmi. I giorni passavano ed io perdevo le forze e le speranze di riuscire a insegnar qualcosa a quei bambini che giocavano a fare i grandi. Ma ci giocavano nella maniera peggiore: li ho visti gettarsi addosso sedie, banchi, se andava bene zaini o libri o penne -certamente non loro- cassini e picchiarsi, sputarsi, offendersi. Oltre che far intervenire la preside, che comunque sentiva anche lei di avere le mani legate con quei mezzi delinquentelli, non sapevo che fare. Mi sentivo inerme impotente e sconfitta.

Ho passato giorni d'inferno, non sapevo cosa e come fare per fare il mio dovere.

Non potevo aspettarmi informazioni di nessun tipo da nessuno, dovevo sapere qualcosa di più profondo su di loro: chi erano, cosa volevano dalla vita, da dove provenivano. Così chiesi loro di parlare di sé, dei loro sogni e desideri, e di parlar anche della loro famiglia.

Fu allora che si squarciò un mondo a me totalmente estraneo: una ragazzina parlò dei suoi 100 padri che andavano e venivano da casa; un'altra di come lei facesse da mamma ai suoi fratellini, un altro di come non sapesse cosa significava festeggiare un compleanno e cose del genere. Ma più di tutti mi colpì lui M. Non stava mai fermo, sempre irrequieto, agitato, prepotente, provocatore, aizzatore, che non si sa come né perché riuscii quel giorno a far entrare in classe -probabilmente scocciato di infastidire fuori, aveva deciso di infastidire i suoi compagni- si dondolava sulla sedia gettando palline di carta verso i compagni.

"M. Smettila. Siedi composto e prendi il quaderno, apri i libri, fa' qualcosa!"

Continuava a ridere con aria strafottente e gli altri compagni appresso.

"Ora basta tutti! Qua sì viene per lavorare, per imparare e crescere! Se continuate e giocare e a bivaccare non crescerete mai, sempre bambini rimarrete. Non sarete mai trattati da grandi come vorreste!"

Ma M. continuava "Mio padre lo sa che io sono grande!"

Al che io "Tuo padre ti deve comprare i libri!"

Scattò in piedi e mettendosi le cinque dita della mano destra aperte sul viso mi urlò "Seeee, ha assì dall sbarr p' tè!" (=See, deve uscire dal carcere per te!) E il silenzio regnò per qualche interminabile secondo.

Questa fu una lezione per me. Ma almeno avevo capito con chi avevo a che fare e se molti altri, collaboratori compresi, avevano un certo timore reverenziale nei loro confronti io cominciai ad averne compassione, senza però commiserarli né essere troppo indulgente. La vita era stata dura con loro? Loro dovevano farsi duri con la vita. Ma io volevo fargli capire che quella durezza di cui io parlavo non era la violenza dei modi che erano abituati ad avere, quanto piuttosto la testa dura, perché piena di cose nuove sane e ricche. Dovevano diventare duri alle reazioni, dovevano imparare a esser duri di fronte alle provocazioni, alla rabbia, alla strafottenza, alla prevaricazione. Non dovevano fare i pappamolle, di quelli che subito cascano nelle liti, ma dovevano fare i Grandi, con la G maiuscola, che non rispondono alla violenza con la violenza, ma aiutano quelli in difficoltà col sorriso e la gentilezza. E se pure poteva capitare che qualche adulo non sapesse essere gentile con loro, io insistevo nel dirgli che toccava quindi a loro far il primo passo. Era difficile, ma se volevano essere visti e giudicati "grandi" come dicevano continuamente di essere, era quella l'unica soluzione: insegnar a fare i veri grandi a chi da Grande non si era mai comportato. Anche a casa.

So che era una responsabilità troppo grande da versare sulle loro spalle, ma io so che nei loro sguardi fugaci e che sembravano aver vissuto più della loro età anagrafica, io leggevo la voglia di riscatto e il desiderio di essere diversi, di cambiare, di scappare forse, ed erano contenti di sentir quelle cose. Erano solo undicenni, ma in seguito non avrei mai più incontrato undicenni così grandi.

I giorni passavano ed io ormai avevo imparato a conoscerli e a volerli bene. Stranamente. Più mi facevano impazzire e più non volevo farmeli sfuggire.

Ogni volta che dicevo "Prendete il quaderno" e qualcuno rispondeva "Non ce l'ho!" ecco che io prontamente offrivo loro un quaderno, oppure "Scrivete" "Non ho la penna!" "Eccoti la penna!". Insomma erano braccati da tutte le parti, con me non c'era più scampo. Con me dovevano leggere, scrivere e parlare, possibilmente in italiano.

Intanto il programma istituzionale doveva pur esser portato avanti e pur continuando i colleghi a ripetermi "Sei una folle se credi di poter fare una lezione là dentro!" io decisi di affrontare una lezione di Epica.

"Ragazzi aprite il libro rosso a pag 15. M. leggi."

"Seee, pressorè! Non sacc lesc!" (=Seee, professoressa, non so leggere!)

"Impariamo. Su, mica io sapevo leggere all'inizio. Poi ho imparato. Piano piano e vedrai che ce la facciamo".

Così cominciò. Ma vedendo che davvero se ne sarebbe andata l'ora solo per leggere due righi, approfittai della strana calma e del silenzio che si respirava e raccontai la storia: "Così Ulisse fuggì da Troia ..."

"Ohu, la professoressa ha detto una parolaccia!"

"No ragazzi non ho detto una parolaccia, ma che dite!?"

"Si pressorè l'avete detto!"

"Ma no..."

"Avete detto che quello fuggì da...?"

Scoppiai a ridere. "Ma Troia non è una parolaccia è la città che fu espugnata e incendiata dai Greci!"

"No pressorè è una parolaccia!"

"Vabbè andiamo avanti, comunque non è ciò che intendete voi. -e proseguii nella storia - dopo tante peripezie, Ulisse torna a casa a dispetto dei Proci ..." "Ha vist? Ne ha detta un'altra!"

"Ragazzi non parlate tra di voi, cosa c'è?"

"Pressorè M. dice che voi avete detto le parolacce!"

"Ancora con questa storia? Ma vi rendete conto, non si dicono le parolacce, ed io non le dico. Tranne quando sono arrabbiatissima e mi può scappare, ma a scuola non si dicono!"

"Pressorè avete detto F...ROCI!"

"Voi fate andate in galera le persone! Non ho detto nulla di simile: ho detto Proci, e se mi fate finire vi spiego chi sono i Proci, con la P!"

Quel giorno tornai a casa certa del fatto che avessero imparato almeno due cose: che Troia era anche una città, e che dire Proci poteva ugualmente essere un'offesa per qualcuno .

Avventure di una futura ex profWhere stories live. Discover now